Master, studiare l’innovazione al centro di formazione Poli.Design

Cina, India e cultura femminile. Il futuro del design è dentro queste tre sfere. Ne è convinta Anna Barbara, presidente del POLI.design, il centro per la formazione post-laurea del Politecnico di Milano con specializzazioni in Interior design e architettura, Business design, Cultural heritage, Fashion design, digital and interaction, Product design e Communication design. Per l’anno accademico scorso i mater tenuti in Italia hanno contato 546 studenti, di cui 240 italiani e 306 stranieri, prevalentemente originari dell’India, Turchia, Spagna, Messico, Francia; i master tenuti in Cina 77 studenti e i corsi executive e di perfezionamento nell’anno 2024 330 professionisti, di cui 275 italiani e 56 stranieri.

La presidente Anna Barbara è un’accademica e progettista di respiro internazionale: insegna Architettura e interior design al Politecnico di Milano, ma è anche membro del consiglio direttivo della World design organisation e co-fondatrice del Global design futures network. Ha rappresentato l’Italia come design ambassador in Kuwait e in Sudan ed è stata visiting professor alla Tsinghua university Pechino e alla Kookmin university a Seul. Un curriculum internazionale che le permette di avere una visione globale sul presente e sul futuro del mondo del design.

Professoressa Barbara, Milano è ancora la capitale del design?

Sì, lo è, e per due ragioni. La prima è che ha ancora un’imprenditorialità illuminata che lavora in maniera sistemica. La seconda è perché ha il vizio e la virtù di saper raccontare bene le storie, di sapersi vendere. Ma oggi chi non è a Milano non è fuori dal gioco: in giro per il mondo ci sono altri poli del design altrettanto interessanti. La Cina post-pandemica è un luogo di grande interesse, da ascoltare senza arroganza. Le scuole milanesi stanno formando molti designer cinesi: sono cinesi o sono italiani? Io credo che siano esperti straordinari e globali, non possiamo ridurli al ruolo di meri ambasciatori del made in Italy. Anche l’India è un posto interessante verso cui guardare. L’Africa invece per ora non lo è, è ancora troppo presto, anche se credo che avrà da dirci la sua nei prossimi cent’anni.

Nel design le donne hanno raggiunto la parità di genere?

Storicamente c’è stata una grande discriminazione delle donne anche nel mondo del design. È inutile negarlo, il mondo passato è stato un mondo di maschi. Oggi non è più la stessa cosa. Io credo però che il punto più interessante non sia la contrapposizione donne-uomini, ma il tema della femminilità come approccio culturale. Sta ormai avanzando una cultura femminile nel design, che ha a che fare con la sensorialità, l’inclusività, la multiscalarità. Sono le stesse parole-chiave che usa il mondo del digitale, del resto avere un approccio femminile significa fare più cose contemporaneamente, come su Internet. Significa avere un approccio laterale  e non lineare. Soprattutto si tratta di un concetto di femminilità che può essere adottato anche dagli uomini. Sempre più aziende stanno adottando un approccio femminile al design, ed è una cosa molto potente.

Dove sta andando il design oggi?

Questo è un mondo che sta aprendo i suoi confini. Abbiamo già portato il design nel mondo della salute, della cosmetica, della tutela del patrimonio artistico. I risultati migliori arrivano da mondi mai toccati prima, per esempio quelle dei servizi: oggi per esempio lavoriamo molto sulle app per i cellulari. Il design sta lanciando anche nuovi mestieri: c’è il pet designer, che lavora con gli alberghi o con i prodotti per la casa, c’è il designer olfattivo, il legal designer…

Milano è piena di scuole di design. Come fa uno studente a orientarsi nella scelta?

Io credo che vengano fatte comparazioni che non sono corrette: non ci sono centri migliori e centri peggiori, tutti gli istituti di questa città sono eccellenti, solo che hanno profili diversi. Le scuole di formazione al design di Milano dovrebbero fare concorrenza alle altre nel mondo, e non tra se stesse. Il POLI.design, per esempio, è un ente di ricerca, quindi il suo focus è capire cosa succederà tra dieci anni. Istituti come la Naba o lo Ied, invece, si concentrano sul dare una risposta immediata alle esigenze del mercato.

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