Occupazione femminile: Italia, ultima in Europa, sta perdendo un’opportunità di crescita

C’è un contributo che giova alla crescita economica e all’innovazione: quello delle donne. Lo conferma il report di Deloitte “Empowerment femminile come leva strategica per la crescita aziendale e l’innovazione”, in collaborazione UN Women Italy e Winning Women Institute. Se ancora ce ne fosse bisogno.

In Italia lavora solo una donna su due (il 52,5%): il Paese è fanalino di coda nell’UE a 27. Una realtà che stride con le sette donne lavoratrici su dieci in Europa, e ancor di più con il tasso di occupazione maschile italiano (70,4%). Eppure la riduzione della disparità di genere nel mondo del lavoro può avere un impatto positivo sul Pil: secondo il Fondo monetario internazionale, la riduzione delle disuguaglianze nel mercato del lavoro potrebbe contribuire a una crescita del Pil nelle economie emergenti e in via di sviluppo di quasi l’8%. I benefici derivanti dall’eliminazione totale del divario sarebbero ancora maggiori, con un aumento potenziale del Pil in questi Paesi pari in media al 23%.

Uno sguardo internazionale

Il Global Gender Gap Report 2025 premia l’Europa, prima in classifica grazie al 75% del divario di genere colmato. In questo scenario di rapida ascesa, tuttavia, l’Italia rimane tra i Paesi europei con le performance più basse, bloccandosi alla 85esima posizione. In realtà l’edizione 2025 certifica che siamo passati dall’87esimo posto all’85esimo. Un leggero miglioramento, ma sarebbe da comprendere se sia dovuto a un passo avanti dell’Italia o al passo indietro di un paio di nazioni che lo scorso anno ci precedevano. Un altro dato può illustrare meglio il posizionamento italiano: In Europa siamo il 35esimo Paese su 40 e dopo di noi compaiono solo Macedonia, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Turchia. Tutti gli altri ci precedono che siano Paesi mediterranei, nordici, baltici, ex russi.

Il peso dei lavori di cura

In questo contesto, mentre l’Unione Europea risana i tre quarti del proprio divario di genere, l’Italia stenta a tenere il passo con un gender gap del doppio (18 punti percentuali) rispetto alla media europea. Tra i fattori che incidono sulla bassa occupazione femminile c’è ancora la responsabilità familiare, quotata al 33,9%, secondo i dati Istat.

E la conferma viene dai numeri dell’occupazione: il 69,3% delle donne che vivono da sole è occupato, percentuale che cala al 62.9% per le madri single e al 57.2% per le madri in coppia. I dati rilevano inoltre, che le stesse responsabilità sul fronte dei lavori di cura vengono riportate solo dal 2,8% della controparte maschile.

Il gender gap dell’intelligenza artificiale

Un gender gap che viene accentuato nell’innovazione. La rivoluzione che sta avvenendo in ambito lavorativo con l’introduzione dell’intelligenza artificiale rischia di vedere come grandi escluse ancora una volta le donne. C’è infatti una scarsa partecipazione delle ragazze ai percorsi accademici in ambito scientifico e tecnologico. Pur rappresentando quasi il 55% delle iscrizioni complessive a livello europeo, le studentesse nei corsi Stem sono appena un terzo. Percentuale che scende al 20,6% nel caso degli studi in ict. Un aspetto tanto più significativo per le implicazioni che può avere sugli sviluppi delle nuove tecnologie, a cominciare da un’intelligenza artificiale che incorpora e amplifica pregiudizi e disuguaglianze di genere.

Se fondata sulla parità e sull’inclusione, l’AI al contrario può dispiegare grandi opportunità. «Serve un cambio di rotta già a scuola: tecnologie e intelligenza artificiale stanno ridisegnando le competenze e i mestieri del futuro. Se ben guidate e orientate, le ragazze hanno tutto il potenziale per guidare da protagoniste il cambiamento e conquistare la propria autonomia economica. È il momento di coltivare una mentalità digitale nelle giovani donne. Le imprese, dal canto loro, devono attivare politiche inclusive per valorizzare il merito e le competenze distintive delle donne e i WEPs vanno esattamente in questa direzione» spiega la presidente di UN Women Italy Darya Majidi.

In contemporanea, programmi come l’EIC Women Leadership Program sostengono ricercatrici e imprenditrici nei loro percorsi di formazione e networking al fine di irrobustire la presenza femminile nei settori tecnologici e innovativi. La presidente di Winning Women Institute Paola Corna Pellegrini ritiene «essenziale che le istituzioni continuino a sostenere le imprese nel loro percorso di trasformazione». Da questa comune convinzione, nascono iniziative come Girls Go Circular, Women TechEU e il Programma GOL per rafforzare le competenze digitali, imprenditoriali e facilitare la ripresa del lavoro femminile.

Leadership e CdA

Una bassa percentuale di donne nei percorsi stem si traduce poi in dati esigui di presenza femminile nei comparti più avanzati dell’innovazione. In Italia, ad esempio, secondo i dati relativi al 2024, le imprese femminili rappresentano il 22,2% del totale mentre solo il 14,26% delle startup innovative è guidato da donne: un dato che «riflette le persistenti barriere strutturali, dall’accesso limitato ai capitali e alle reti, ai pregiudizi culturali e al deficit di fiducia» ricorda Silvana Perfetti, presidente di Deloitte Central Mediterranean.

Dall’imprenditoria al management la situazione non migliora di molto. Dal 2014, l’Europa ha registrato un aumento del 3,4% della presenza femminile ai vertici delle aziende e, dieci anni dopo, il 35% delle posizioni manageriali europee è occupato da donne. Tuttavia, la stessa quota in Italia sfiora il 28%. Ancora più bassa è la rappresentanza nelle posizioni dirigenziali e di middle management italiane, ferma al 24% da novembre 2023.

Una perdita non da poco per le aziende: secondo OECD (2023), portare ad esempio la quota di donne nei consigli di amministrazione al 20% può aumentare la produttività aggregata di circa lo 0,6%; il Journal of the Knowledge Economy (2025) associa, in aggiunta, una crescita dell’1% della presenza femminile nei consigli di amministrazione a una aumento del ROA dello 0,22% e del ROS dell’1,29%. L’impatto positivo non si limita alle prestazioni finanziarie: le recenti analisi riportate sull’International Journal of Business and Management (2024) hanno dimostrato un miglioramento significativo dei risultati ESG complessivi quando nel consiglio di amministrazione di una società è presente una quota critica di almeno tre donne, dimostrando che la diversità di genere rende più efficaci le pratiche di sostenibilità e di governance.

Un quadro, che non riguarda l’Italia, almeno se si prendono in considerazione le società quotate in Borsa. La legge Golfo-Mosca, approvata nel 2011 e poi rinnovata, prevede infatti che il 40% dei posti nei board venga riservato al genere meno rappresentato. Così il nostro Paese presenta una situazione virtuosa non solo in ambito europeo, ma anche a livello globale. L’ultimo studio della Consob, evidenzia che la presenza delle donne negli organi sociali delle quotate si attesta al 43% delle posizioni, al di sopra quindi della soglia minima fissata per legge (40%). È inoltre in crescita rispetto agli anni precedenti la percentuale di società in cui il genere femminile è ugualmente o più rappresentato rispetto a quello maschile nell’organo di amministrazione (19% dei cda rispetto al 15% del 2023). Tuttavia, le donne, come si diceva, faticano a fare carriera tanto che raramente ricoprono il ruolo di amministratore delegato o di presidente dell’organo di amministrazione (rispettivamente 2,2% e 3,5% degli incarichi ricoperti da donne nelle società quotate italiane).

Leve strategiche

Colmare queste lacune, a detta di Perfetti, richiede un cambiamento culturale che consenta alle donne di partecipare all’imprenditoria e di espandere le loro società. Si rendono per questo necessarie mirate misure di policy e una maggiore collaborazione tra pubblico e privato.

Diverse politiche pubbliche si stanno muovendo in questa direzione: dalle riforme del congedo parentale, ai sistemi di certificazione (principi WEP e UNI/PdR 125:2022) fino ai programmi di finanziamento come il Gender Finance Lab di Invest EU. Inoltre dal giugno prossimo l’Italia, come gli altri Paesi membri dell’Ue, dovrà recepire la direttiva relativa alla parità salariale, che potrebbe portare a un ribilanciamento anche rispetto al gender pay gap che oggi nel nostro Paese è pari a circa il 12% a parità di ruoli e di mansioni.

La vera sfida in Italia è però quella dell’occupazione femminile: non è più solo una questione sociale, ma una leva strategica per la crescita economica del Paese. Puntare sulla parità non è più un’opzione, quanto piuttosto una condizione necessaria per la competitività futura dell’Italia. Come ricorda anche Majidi: «Se la metà delle donne in Italia non lavora, è l’intero Paese a perdere».

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  • Rocco Regine |

    Credo che i Vs pregevolissimi articoli siano per “addetti ai lavori” e non per tutti.
    Altrimenti non si spiegano i tanti acronimi tecnici, ad esempio “Stem – ict – WEPs – GOL”, lasciando da parte quelli oramai usuali. E’ così ? Credo inoltre aumentare l’uso di grafici renderebbe le differente molto più comprensibili immediatamente.

  • Katia Sdrubolini |

    Buongiorno, molto interessante lo studio e l’articolo sull’occupazione Femminile.
    In Italia urge un cambio di rotta secondo il mio modesto parere, anche sul parere di molte di noi.
    Il gas sarà superato quando ci saranno servizi per rendere indipendente la Donna e quando le aziende avranno un premio dallo Stato in quanto assumono Donne.
    Anche le Donne stesse capotane di aziende dovrebbero essere sostenute e premiate in momenti come la maternità, la cura della Famiglia ecc…
    Il congedo parentale deve diventare obbligatorio.
    Distinti saluti
    Katia Sdrubolini

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