Le più competenti, le meno pagate. La violenza economica per le donne è una realtà consolidata – e silenziata – anche nel settore musicale. È quanto emerge dalla ricerca “Donne Mu-De: diseguaglianze di genere nel rapporto tra donne, musica e denaro” condotta dalla ricercatrice Alessandra Micalizzi e presentata lo scorso 9 giugno durante la quinta edizione di “Women in Music“ al SAE Institute Milano. Il termine “violenza” non è un’esagerazione. Ma, come testimoniano le voci in dialogo durante la presentazione – Anna Zò, project manager di Music Innovation Hub e docente del corso di Music Business di SAE Institute; Elasi e Emanuela Ligarò (Gold Mass), note producer italiane; e la cantautrice Anna Carol – restituisce i risultati dello studio che, coinvolgendo un campione di oltre 100 rispondenti per lo più under 45, evidenzia un fenomeno strutturale: le donne che fanno o si occupano di musica sono costantemente sottoposte a un minore riconoscimento della qualità del proprio lavoro, al continuo tentativo di sminuire le proprie competenze e affrontano una difficoltà generale ad essere identificate come interlocutrici competenti per discutere di compensi.
«Lo svilimento delle competenze delle donne le pone immediatamente ad essere meno pagate rispetto a un uomo e soprattutto a non essere riconosciute come interlocutrici legittime per quel che riguarda la negoziazione del compenso – spiega ad Alley Oop Alessandra Micalizzi, docente e psicologa curatrice della ricerca – Un’evidenza già emersa da ricerche precedenti e che si conferma come una forma di violenza: le rispondenti, pur avendo una visione del denaro razionale e consapevole, evidenziano come l’aspetto più difficile nei loro percorsi professionali sia essere riconosciute per il valore del proprio lavoro, richiedere compenso adeguato, negoziarlo e ottenerlo».
Donne in musica, il 61% percepisce di essere pagata meno degli uomini
I numeri della disparità retributiva di genere nella musica ne testimoniano la pervasività. Warner Music UK registra un gender pay gap medio del 37,7% (rispetto al 36,7% nel 2021). Universal Music UK del 25,6% (rispetto al 31% nel 2021). Sony Music Entertainment UK del 20% (rispetto al 27,9% nel 2021). Quanto essere donna influisce sul riconoscimento economico del proprio lavoro? Da questa domanda parte la ricerca “Donne Mu-De” che ricostruisce il percepito e il vissuto intorno all’esperienza del riconoscimento di valore economico del proprio lavoro in ambito musicale, con particolare attenzione alla variabile di genere. «Il bias culturale che ci portiamo dentro è quello per cui “amatoriale” coincide con il mondo femminile e competenza coincide con il mondo. Lo stesso per il denaro» sottolinea Micalizzi, riportando una testimonianza raccolta dalla survey: «Una giovane intervistata è riuscita a sintetizzare molto bene questo concetto raccontando che, pur essendo una producer in studio, nel momento in cui è sul palco viene considerata come “la bambina che gioca con gli attrezzi di papà”: quindi, ancora una volta, prevale il pregiudizio di un approccio amatoriale rispetto al lavoro delle professioniste».
Come registra lo studio, il 61% delle intervistate ritiene di essere pagata meno degli uomini. Solo una minoranza non percepisce un divario di compenso. Il resto del campione spiega il fenomeno in termini di reputazione, per cui la credibilità professionale di una donna in ambito musicale è meno riconosciuta e si costruisce più lentamente, e competenza, per cui la giustificazione a un compenso inferiore viene ricondotta a una minore competenza tecnica o artistica a dispetto dei percorsi formativi strutturati posseduti dalle donne.
Svilimento e infantilizzazione delle competenze: «Lo fai perché ti piace»
«Abbiamo provato a costruire un differenziale semantico che tenesse insieme coppie di aggettivi opposti per indagare a fondo la relazione delle professioniste con il denaro: lo associano soprattutto a sicurezza, libertà, autonomia. Prevale la visione del denaro come risultato della propria fatica» spiega Micalizzi. Solo il 7% delle intervistate proviene da nuclei familiari dove il denaro era ritenuto un tabù. Ciò nonostante, la difficoltà maggiore risulta essere parlare di denaro. In sostituzione di compensi adeguati alle professioniste vengono proposte forme di baratto: la visibilità ottenuta dalla performance o il “piacere” dell’esperienza vissuta, indipendentemente dal riconoscimento della stessa come lavoro. Lo studio riporta le risposte più frequentemente utilizzate per aggirare la richiesta di compenso: «Dovresti già ringraziarmi per la visibilità che ti ho dato», «Per la parte economica parlo con il tuo manager/padre/fratello o altra figura maschile» sono le frasi che ricorrono nel 50% dei casi; «Quando riesco ti pago. Mi faccio sentire io», «Sulla cifra ci sistemiamo in un altro momento» le risposte utilizzate nel 39% delle situazioni denunciate. La difficoltà nel negoziare e ottenere si riflette nei numeri. Le informazioni sul reddito prodotto dalla propria attività in ambito musicale si attestano sotto i 15 mila euro: a dimostrazione che – come riporta lo studio – «La questione economica non è fredda e funzionale ma costituisce una vera relazione con tutta la sua complessità».
Il 30,7% delle intervistate delega la gestione del denaro per ottenerlo
A causa degli stereotipi di genere che sbarrano le carriere delle artiste, le donne che lavorano nella musica preferiscono affidarsi a un familiare o a un esperto quando si tratta di gestione economica. Lo fa il 30,7% delle intervistate. Ciò avviene nonostante nonostante un background educativo descritto come costruttivo rispetto ai temi del denaro: le intervistate testimoniano una distribuzione molto alta rispetto alle difficoltà connesse al riconoscimento del valore economico del proprio lavoro, alla definizione del compenso e all’ottenimento dello stesso.
«Il vero stereotipo interiorizzato è quello di non riconoscersi all’altezza – commenta Micalizzi – Abbiamo fatto questa ricerca per lavorare proprio nello sguardo delle donne prima ancora che nello sguardo degli uomini: l’obiettivo è costruire consapevolezza finanziaria. Ovvero: sapere di cosa stiamo parlando e, laddove non ho le competenze, potersi dare l’opportunità di approfondire perché sono nelle condizioni di essere legittimata».
Perché è così difficile essere donne nella musica
«Una donna deve sempre dimostrare di essere un’eccellenza massima prima di poter ricevere il riconoscimento base. Il valore intellettuale delle donne è sottovalutato sempre» riporta una testimonianza raccolta nella survey. Un tema emerso a più riprese anche dalle artiste con più visibilità: lo ha detto Elodie, prima donna ad esibirsi allo stadio Maradona di Napoli a inizio giugno, durante lo scorso Festival di Sanremo in merito alla mancata vittoria di Giorgia. Lo ha evidenziato Emma dal palco di Repubblica delle Idee – «La musica è donna, ma ci tocca sgomitare di più». Lo aveva già evidenziato, riguardo la sua eliminazione da X Factor, la cantautrice Francamente «Una sola ragazza andrà in finale e questa credo sia una grande sconfitta. Meno donne vengono rappresentate nella musica, meno donne si avvicineranno alla musica e continueremo a perdere la produzione musicale di metà del genere umano». Più recentemente la cantautrice Levante ha specificato attraverso i suoi social come il titolo di un’approfondita intervista sulla sua storia musicale, invece che focalizzarsi sul suo percorso artistico, abbia centrato l’attenzione sul nome del suo ex: «Se voglio vederla male significa sminuire un’artista che ha scritto sei dischi, tre romanzi, un libro di poesie, tour ovunque, ho cantato nei più piccoli posti, fino a posti molto molto grandi – ha sottolineato Levante – Ci perdiamo in queste cose, mi dispiace tanto. Che spreco».
Se si parla di artiste, la loro vita personale – come la loro apparenza – viene prima, sottoposta a un giudizio costante. A riguardo, suggerisce Micalizzi, serve fare squadra. Non solo per prendere spazio. Ma per difenderlo e abitarlo a proprio modo, a partire dal riconoscimento delle proprie competenze e potere prima di ogni altro aspetto: «C’è un tema di collettività che dobbiamo coltivare perché a volte, nel tentativo di costruire faticosamente il proprio percorso, si agisce individualmente a discapito del progetto comune: se riuscissimo a ragionare in termini collettivi, almeno finché non c’è questa inversione di rotta, ci aiuteremmo di più. Parte tutto dalla nostra consapevolezza». Per questo, tra i prossimi step della ricerca, ci sono corsi: mentoring per superare la questione di genere nella musica agendo collettivamente, corsi di gestione economica e supporto della rete attraverso occasioni di networking. «Mi fate capire che non sono pazza» si legge in una testimonianza: serve dare concretezza alla realtà di tante e, soprattutto, non isolarsi. Né sentirsi sole.
Line up tutte al maschile, «Non abbiamo trovato donne» è deresponsabilizzazione
Nonostante il crescente numero di artiste in classifica a livello internazionale (nel 2023 hanno raggiunto il livello più alto mai registrato a partire dal 2012, ovvero il 35%) e il peso economico rilevante nell’industria (si pensi a Taylor Swift), non è difficile incappare in line up ancora tutte al maschile: l’edizione 2025 di Rock in Roma ne rappresenta un esempio lampante. Nessuna donna. «Abbiamo provato a invitare artiste donne, ma non siamo riusciti a incastrare le date» hanno commentato gli organizzatori. A Milano, con iDays, non va meglio: solo due donne- Dua Lipa e Olivia Rodrigo – su sei headliners.
La presunta difficoltà nel trovare le artiste è la spiegazione più frequente ma, come spiega Micalizzi, «Questa è una forma di deresponsabilizzazione: stiamo spostando il problema. Se non ci sono, ad esempio, donne che suonano la chitarra non è perché semplicemente non esistono. Ma perché quelle donne, sin da ragazze, sono state scoraggiate come tante altre loro coetanee a suonare. Magari lo fanno nella loro cameretta e sono bravissime. Tuttavia, non sono arrivate a diventare note perché non hanno avuto la stessa spinta a farlo rispetto agli uomini. Più incoraggiati, rappresentati e legittimati: “Ci vuole pelo sullo stomaco” è quello che le intervistate ci hanno ripetuto di più in riferimento alle loro carriere». Per cambiare la narrazione, ed evitare quello che Micalizzi definisce un «affaticamento rispetto alla questione genere», serve diventare consapevoli del proprio potere. Oltre che delle competenze acquisite in alti percorsi di specializzazione: fare rete, in questo senso, è cruciale e – stando ai dati – lo sarà ancora con più urgenza.
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