Quattro dei cinque quesiti referendari su cui gli italiani saranno chiamati a esprimersi l’8 e 9 giugno avranno al centro il tema del lavoro, con una ricaduta particolare sui diritti dei dipendenti delle piccole aziende. Un effetto non da poco per un tessuto produttivo, quale quello italiano, di cui le Pmi costituiscono l’ossatura, contribuendo al 76% dell’occupazione del Paese e al 63% del valore aggiunto.
«Al centro del voto ci sono quattro temi legati alle tutele in caso di licenziamenti, alla disciplina sui contratti a termine e alla questione connessa alla responsabilità solidale degli appalti in caso di infortuni», spiega ad Alley Oop l’avvocato giuslavorista Giorgio Manca, specializzato nella gestione delle risorse umane e delle relazioni sindacali. Ecco cosa propongono i quattro referendum e quali effetti avrà il loro esito.
Quesito 1, scheda verde, contratto di lavoro a tutele crescenti e licenziamenti illegittimi
La prima proposta referendaria chiede l’abolizione del contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs Act nel 2015. La norma regola oggi le tutele in caso di licenziamento illegittimo per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015.
«Il Jobs Act – ricostruisce Manca, partner di Dwf Italy – era nato con l’intento di contemperare due esigenze: quella di irrigidire i meccanismi di ingresso nel mercato del lavoro – tramite la lotta alle false collaborazioni autonome, in favore del contratto di lavoro subordinato – e quella di creare, al contempo, maggiore flessibilità nella gestione dei licenziamenti, con la riduzione delle ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro, in favore di indennità economiche predeterminabili in base alla sola anzianità di servizio del lavoratore ingiustamente licenziato».
Quando la legge fu approvata, per le aziende con più di 15 dipendenti, l’indennità variava da 4 a 24 mensilità (due mesi per ogni anno di servizio). Successivamente, con il decreto Dignità (2018), la forbice è stata ampliata, passando da 6 a 36 mensilità. Prima del Jobs Act, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (di cui è ricorso da poco il 55° anniversario e che è ancora oggi applicato a tutti i dipendenti assunti prima del 7 marzo 2015 in aziende con più di 15 dipendenti) stabiliva che, in caso di licenziamento illegittimo (senza giusta causa o giustificato motivo), la reintegrazione nel posto di lavoro era la tutela principale. Con la riforma del 2015, invece, la reintegrazione è diventata un’eccezione, e la forma di tutela prevalente è l’indennizzo economico.
Negli ultimi anni, comunque, le decisioni dei giudici hanno modificato il diritto vivente riducendo l’impatto del Jobs Act. «Le sentenze delle corti di merito e della Corte costituzionale – afferma il legale – hanno reintrodotto nuovamente, a certe condizioni, il diritto alla reintegrazione anche ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. L’anzianità di servizio, oramai, non è più un vincolo per i giudici per la determinazione dell’indennità da riconoscere al lavoratore ingiustamente licenziato, fortemente depotenziando la portata del Jobs Act».
Se vince il sì la disciplina del Jobs Act sui contratti a tutele crescenti verrà meno. Si tornerà a estendere l’applicazione dell’articolo 18 a tutti i dipendenti con contratto a tempo indeterminato, assunti sia prima sia dopo il 7 marzo 2015. Ciò varrebbe per le aziende con più di 15 dipendenti in un’unità produttiva o oltre 60 a livello nazionale. La platea dei beneficiari, stima la Cgil è di oltre 3,5 milioni di lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi.
Quesito 2, scheda arancione, licenziamenti e relativa indennità nelle piccole imprese
Il tema in questo caso riguarda la cancellazione del tetto all’indennità nei casi di licenziamento illegittimo nelle piccole imprese. «Questo quesito – sottolinea Manca – è molto significativo in termini di ampliamento delle tutele perché riguarderebbe tutti i lavoratori impiegati nelle piccole aziende, che sono la gran parte sul territorio». Più precisamente, secondo Cgil, la misura interesserebbe circa 3,7 milioni dipendenti.
In un processo per licenziamento illegittimo, secondo la normativa vigente, le aziende oggi rischiano soltanto di essere condannate a riassumere il dipendente e non a reintegrarlo. In punta di diritto, spiega l’avvocato, «riassumere vuol dire fare un nuovo contratto, ma il datore di lavoro può scegliere di non procedere e pagare un’indennità che attualmente va da 2,5 a 6 mensilità (a discrezione del giudice)». Per gli assunti post 7 marzo 2015, l’indennità varia invece da 3 a 6 mensilità.
Da notare che la normativa attuale ravvisa una evidente disparità di trattamento risarcitorio tra piccole e grandi imprese in materia di indennità: laddove per le grandi realtà si applicano indennità da 6 a 36 mensilità (o tra 12 e 24 mensilità per gli assunti pre-Jobs Act), per le piccole si scende a un massimo di 6.
Se vince il sì: in caso di licenziamento illegittimo, non ci sarà più una predeterminazione dell’indennità massima ma sarà il giudice a stabilire un risarcimento, potenzialmente illimitato, adeguato al danno subito.
«La modifica in questione – commenta l’avvocato – sembra mirata a introdurre un meccanismo “dissuasivo” per le piccole imprese, che si troverebbero ora a rischiare indennità economiche sensibili in ipotesi di licenziamento ingiustificato. Eliminare il “tetto” delle 6 mensilità renderebbe i giudici liberi di sanzionare le aziende con maxi risarcimenti in ipotesi di licenziamenti gravemente ingiustificati. Il che, per aziende piccole, potrebbe avere un impatto economico notevole».
Quesito 3, scheda grigia, contratti a termine
La proposta referendaria propone di eliminare la acausalità dei contratti a tempo determinato rendendo il lavoro più stabile, stimano i sindacati, a circa 2,3 milioni di italiani. Per acausalità, spiega Manca, «si intende la possibilità di stipulare un contratto a termine senza dare una ragione oggettiva che, per legge o per contratto collettivo, giustifichi il lavoro temporaneo al posto di un contratto a tempo indeterminato». Il riferimento normativo attuale è l’articolo 19 del Jobs Act.
Se vince il sì: verrà ripristinato l’obbligo di causale per il ricorso ai contratti a tempo determinato, fin dal primo giorno e per ogni successiva proroga o rinnovo. Di conseguenza, illustra l’avvocato, «le aziende avranno la possibilità di assumere a termine con una durata massima di 24 mesi, proprio come avviene ora, ma con l’onere di specificare, sempre, una causale giustificativa. Le causali sarebbero solo e esclusivamente quelle previste dalla contrattazione collettiva».
Quesito 4, scheda rosso rubino, sicurezza sul lavoro e responsabilità solidale del committente
Nel primo trimestre del 2025 le denunce di infortunio con esito mortale avvenute durante l’attività lavorativa sono state, stima l’Inail nel suo bollettino trimestrale, 146, esclusi gli studenti. Le norme attuali impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante in caso di rischi specifici relativi all’attività.
L’articolo 26 del Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro (decreto legislativo 81/2008) oggi stabilisce che, in caso di infortunio o malattia professionale, se il dipendente dimostra di aver subito un danno superiore a quanto indennizzato dall’Inail (il cosiddetto “danno differenziale”), tale ammontare può essere richiesto in solido sia all’appaltatore sia al committente.
In altre parole, illustra il legale, «se un lavoratore si infortuna in un cantiere di una grande azienda e la sua ditta appaltatrice non può coprire il risarcimento del danno differenziale, il dipendente può chiederlo direttamente al committente, che spesso è più solvibile. Con una eccezione però: il committente non risponde se l’infortunio è strettamente connesso al rischio specifico dell’attività svolta dall’azienda appaltatrice. Se il tipo di incidente è una conseguenza diretta del lavoro che l’azienda appaltata svolge, il committente quindi potrebbe essere esonerato».
Se vince il sì: la proposta di modifica vuole eliminare l’eccezione che solleva il committente dalla responsabilità congiunta per incidenti sul lavoro o patologie professionali legate ai rischi specifici dell’attività dell’azienda appaltatrice. Con l’abrogazione della norma, il committente sarebbe sempre responsabile del danno differenziale, a prescindere dalla tipologia di attività svolta dal dipendente al momento dell’infortunio. Un cambio della legge che punta a garantire in generale una maggiore sicurezza sul lavoro, spingendo i committenti a scegliere appaltatori più scrupolosi.
Le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi resteranno, invece, le stesse.
Come si vota
Il referendum è di tipo abrogativo. Ciò significa che la vittoria del sì cancella del tutto o in parte la legge oggetto dei quesiti referendari. Con la vittoria del no, invece, la norma rimane invariata.
Il raggiungimento del quorum sarà il banco di prova per questo referendum. Affinché la consultazione risulti valida, il numero dei votanti dovrà superare il 50% degli aventi diritto, come prevede l’articolo 75 della Costituzione.
Anche non votare sarà una scelta politica: astenersi infatti può contribuire al mancato raggiungimento del quorum e a quel punto le leggi oggetto del referendum saranno mantenute in vigore.
Cosa succede dopo
Per ognuno dei 5 referendum, in caso di vittoria, la parola passerà al presidente della Repubblica che ufficializzerà l’abrogazione della legge (o di parte di essa) con un decreto.
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