Referendum, al voto 8-9 giugno per dimezzare gli anni per la cittadinanza

In Italia vivono oggi oltre cinque milioni di cittadini stranieri, pari al 9,2% della popolazione residente. È una comunità in crescita, che ha visto quest’anno un aumento di 169mila unità, pari a +3,2% rispetto all’anno precedente. Solo una parte minoritaria di questi uomini, donne, ragazzi e bambini ha però acquisito la cittadinanza italiana. Nel 2024 sono stati 217mila gli stranieri che hanno ottenuto il passaporto italiano, un numero in lieve aumento rispetto ai quasi 214mila dell’anno precedente. I principali Paesi di origine sono l’Albania, con 31mila nuove acquisizioni, il Marocco (27mila) e la Romania (15mila), che quest’anno ha superato l’Argentina nella classifica delle comunità più rappresentate. Nel complesso, il 64% delle nuove cittadinanze concesse riguarda nove Paesi di origine, tra cui spiccano Albania, Marocco, Romania, India, Pakistan e Bangladesh, che da soli rappresentano la maggioranza delle nuove acquisizioni.

Chi è diventato a tutti gli effetti un cittadino o una cittadina italiana è però ancora una minoranza. Secondo il rapporto dell’Istat “Cittadini non comunitari in Italia | Anno 2023”, circa il 35% degli stranieri ha acquisito la cittadinanza italiana. Non si tratta di un processo automatico: diventare italiani richiede un percorso preciso, che per i cittadini extracomunitari prevede oggi dieci anni di residenza continuativa, oltre al rispetto di una serie di altri requisiti di legge.

Come si diventa cittadini italiani

Per ottenere la cittadinanza italiana, uno straniero non comunitario deve dimostrare di avere un reddito personale o familiare non inferiore alle soglie previste per l’esenzione dal ticket sanitario: circa 8.263 euro all’anno per una persona singola, 11.362 euro se con coniuge a carico, aumentati di 516 euro per ogni figlio convivente. Questo requisito deve essere soddisfatto nei tre anni precedenti la domanda.

La legge prevede inoltre che non ci siano condanne definitive per reati particolarmente gravi, ma la valutazione è discrezionale: possono infatti essere considerati ostativi anche procedimenti penali in corso o condanne minori. Dal 2018 è obbligatorio certificare una conoscenza della lingua italiana di livello B1 o superiore, attraverso enti riconosciuti dal ministero dell’Interno. A questi si aggiunge il requisito che rappresenta spesso l’ostacolo principale: aver vissuto legalmente e senza interruzioni in Italia per almeno dieci anni, mantenendo sempre un permesso di soggiorno valido e la residenza anagrafica, senza periodi di irregolarità o cancellazioni.

Il referendum della svolta?

L’8 e il 9 giugno gli italiani saranno chiamati a esprimersi su un referendum che propone di ridurre da dieci a cinque anni il requisito minimo di residenza per richiedere la cittadinanza. La misura, se approvata, potrebbe avere un impatto significativo: secondo i dati Istat aggiornati al 31 dicembre 2023, sono infatti circa 2,14 milioni i cittadini non comunitari che risultano regolarmente residenti da almeno cinque anni nel nostro Paese. Un numero che rappresenta circa il 59% dei 3,6 milioni di non comunitari regolarmente presenti in Italia.

Oggi il quadro normativo è regolato dalla legge 91 del 1992, che stabilisce tre vie principali per l’ottenimento della cittadinanza: per discendenza da italiani (ius sanguinis), per matrimonio con un cittadino italiano e per residenza. Proprio su quest’ultima modalità si concentra il quesito referendario, che punta a dimezzare il requisito temporale da 10 a 5 anni, ripristinando la soglia che era prevista fino al 1992. Una scelta che – sottolineano i promotori – porterebbe l’Italia più in linea con quanto già avviene in Paesi come Francia, Belgio e Portogallo.

Le difficoltà di chi vuole diventare cittadino italiano

Ottenere la cittadinanza italiana, però, resta oggi un percorso a ostacoli. Lo conferma Anna Novara, avvocata penalista esperta di diritto dell’immigrazione, che descrive un sistema pieno di complessità burocratiche. «Uno dei problemi principali – spiega – riguarda la dimostrazione della residenza continuativa. Non è raro che molti stranieri, soprattutto quelli in condizioni di maggiore vulnerabilità economica, si trovino costretti a vivere in alloggi di fortuna o in affitto in nero, senza un contratto registrato. Spesso, per riuscire a completare le pratiche, ricorrono a indirizzi fittizi come quello di via Modesta Valenti a Roma. Ma questi indirizzi non vengono riconosciuti dalla questura, che li considera non idonei ai fini della procedura».

Se da un lato le questure pongono l’accento sulla tracciabilità delle persone per ragioni di sicurezza, dall’altro – osserva Novara – i tribunali tendono a dare maggior rilievo alla tutela dei diritti delle persone. «Accade così che, tra rigidità amministrative e interpretazioni differenti della legge, i tempi di attesa si allunghino enormemente: anche quattro o cinque anni dopo la presentazione della domanda, senza alcuna certezza sull’esito finale». Un procedimento che, precisa l’avvocata, è del tutto discrezionale e valutato caso per caso dalla pubblica amministrazione, sulla base di criteri che vanno dal reddito alla presenza di eventuali procedimenti o condanne penali, che l’amministrazione può considerare o meno ostativi al rilascio della cittadinanza.

Ma il tema riguarda anche i più giovani e le loro famiglie, che spesso restano in attesa per anni di un riconoscimento che sancirebbe il loro pieno inserimento nella comunità.

L’effetto sui minori e le famiglie

Oggi sono oltre 900 mila gli studenti con cittadinanza non italiana presenti nelle scuole italiane, pari all’11,2% del totale, con una concentrazione che sfiora il 18,4% in regioni come l’Emilia-Romagna (Ministero dell’Istruzione). Secondo il ministero dell’Istruzione, quasi due su tre (il 65,4%) sono nati in Italia o vi sono arrivati nei primissimi anni di vita, figli di famiglie che spesso hanno attraversato deserti e mari per raggiungere il nostro Paese. Sono loro a riempire le classi delle scuole italiane, nei quartieri e nelle città dove convivono decine di nazionalità diverse. Ma, pur sentendosi italiani, molti di loro non possono ancora esserlo a pieno titolo, vivendo per anni in una sorta di limbo giuridico che li espone a restrizioni e discriminazioni.

La mancanza della cittadinanza limita le loro opportunità: non possono partecipare a viaggi di istruzione all’estero, a programmi come l’Erasmus, a concorsi pubblici o ad alcune competizioni sportive internazionali. Non solo. Il tasso di abbandono scolastico tra gli studenti con cittadinanza non italiana resta doppio rispetto a quello degli italiani, con il 26,4% in ritardo nel percorso di studi contro il 7,9% dei coetanei. Più di uno su quattro non arriva al diploma. Eppure, come già emerso anche su Alley Oop, diverse ricerche internazionali hanno evidenziato una correlazione positiva tra l’acquisizione della cittadinanza e il miglioramento dei risultati scolastici, con effetti concreti sulle prospettive formative, occupazionali e di inclusione sociale delle nuove generazioni.

Un eventuale cambiamento della legge avrebbe quindi ricadute dirette anche sui minori, che oggi acquisiscono la cittadinanza solo attraverso i genitori o al compimento dei diciotto anni, a condizione di aver sempre vissuto legalmente in Italia. La riduzione degli anni richiesti per i genitori potrebbe quindi accelerare il percorso di integrazione per molti bambini e adolescenti che oggi vivono una condizione di incertezza legale.

Le ragioni del Sì e quelle del No

Come ogni referendum, anche quello sulla cittadinanza vede contrapporsi due visioni. I sostenitori del Sì parlano di una misura di giustizia e modernizzazione, in grado di favorire l’inclusione sociale ed economica di milioni di persone già radicate nel tessuto del Paese. Abbreviare i tempi di residenza – sottolineano – non significa eliminare tutti i requisiti: restano infatti vincolanti il possesso di un reddito adeguato, la conoscenza della lingua italiana e l’assenza di condanne penali ostative.

Chi si schiera per il No teme invece che il dimezzamento del requisito temporale svuoti di significato il percorso di integrazione. Sottolineano inoltre il rischio di un aumento improvviso delle richieste che potrebbe mettere sotto pressione la macchina amministrativa, già oggi gravata da tempi lunghi e procedure complesse.

Come ogni referendum abrogativo, anche questo sarà valido solo se verrà raggiunto il quorum, ovvero se si recherà alle urne almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Un obiettivo non semplice, che rappresenta una sfida ulteriore e che spesso ha condizionato l’esito di consultazioni referendarie passate.

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