Diritti, in Italia il 30% di donne e minori vivono in regioni con accesso limitato ai servizi essenziali

In Italia, quasi il 30% dei minori (29,9%) e delle donne (28,3%) vive in regioni dove i diritti umani sono garantiti al minimo livello, con un accesso limitato ai servizi essenziali. La loro salute, il benessere e la possibilità di condurre una vita dignitosa sono compromessi dalla mancanza di un ambiente sicuro e sostenibile, nonché dall’assenza di adeguate misure di protezione contro la marginalizzazione e la violenza.

Le forti disuguaglianze socioeconomiche, unite a investimenti pubblici insufficienti e servizi sociosanitari sovraffollati, restringono ulteriormente l’accesso equo ai diritti fondamentali, colpendo in particolare le fasce più vulnerabili della popolazione. Le donne, nonostante livelli di istruzione sempre più elevati, restano il gruppo più esposto alla marginalizzazione e alle violazioni dei diritti umani, con una performance di appena 42,4 su 100 nel WeWorld Index.

Il WeWorld Index Italia 2025

A dirlo è il WeWorld Index Italia 2025. Giunto alla sua quarta edizione, il rapporto analizza la condizione di donne, bambine, bambini e giovani nel nostro Paese, evidenziando ancora una volta una situazione critica. Valutando il livello di tutela e l’accesso ai diritti fondamentali su scala nazionale e regionale, l’indagine assegna all’Italia un punteggio appena sufficiente, segnalando profonde disuguaglianze e fragilità nel sistema di protezione sociale.Il problema riguarda tutte e 21 le regioni italiane. Nessuna raggiunge infatti un livello elevato di implementazione dei diritti e solo la Provincia Autonoma di Trento e il Friuli-Venezia Giulia si attestano su un livello moderato. A pesare nella valutazione è una combinazione di 30 diversi indicatori e tre sottoindici: il contesto che include ambiente, abitazione, digitalizzazione, sicurezza e protezione, violenza contro donne e minori; l’indice donne che include salute, istruzione, opportunità economiche, conciliazione vita-lavoro, partecipazione politica; e infine il sottoindice minori che include salute, istruzione, povertà educativa, capitale umano, capitale economico.

Un Paese a due velocità

Nel 2024, la media nazionale dell’Indice è di 55, mentre nel 2018 era di 48,5, indicando un miglioramento di 6,5 punti. In cima alla classifica c’è la Provincia Autonoma di Trento che si conferma leader, con un punteggio di 67,3, seguita a breve distanza da Friuli-Venezia Giulia (64,9) Valle d’Aosta ed Emilia-Romagna (63,6), tutte in miglioramento rispetto al 2018. La Toscana, con un salto dal nono al quinto posto, raggiunge un punteggio di 63,3.
Dal 2018 al 2024, le regioni che hanno registrato i miglioramenti più significativi sono state Friuli-Venezia Giulia (+11,1 punti), Toscana (+10,1 punti) e Calabria (+13,8 punti).
Tuttavia, al di là del miglioramento il Mezzogiorno resta indietro e la situazione risulta critica per tutte le regioni del Sud. Sicilia (38,3), Campania (39,4) e Calabria (41,8) si piazzano agli ultimi posti. Mentre Puglia e Basilicata, rispettivamente al 17° e 18° posto con punteggi di 43 e 42,4. Si tratta di risultati che evidenziano – si legge nel report – “come il divario socio-economico tra Nord e Sud resti un problema strutturale, con il Mezzogiorno che continua a faticare nel risollevare le proprie condizioni”.
Le regioni meridionali risultano, infatti, le più carenti nell’implementazione di diritti fondamentali, come educazione e salute, e presentano significative difficoltà anche in termini di condizione economica e partecipazione politica femminile.

Povertà educativa e diritti negati

Uno degli aspetti più critici messi in luce dal rapporto è la povertà educativa, un fenomeno che, nonostante alcuni segnali di miglioramento, continua a rappresentare un ostacolo per molti bambini e giovani in Italia. L’abbandono scolastico rimane un problema particolarmente grave, con differenze marcate tra le diverse aree del Paese. Il 14,2% dei giovani tra i 18 e i 24 anni lascia la scuola prima di completare il percorso di istruzione, una percentuale che sale oltre il 20% in regioni come Sicilia e Campania, dove le difficoltà socioeconomiche e la carenza di servizi rendono ancora più difficile garantire il diritto allo studio.

Anche i più piccoli risentono della mancanza di investimenti nel settore educativo: meno di un terzo dei bambini tra 0 e 2 anni (27,8%) ha accesso ai servizi per l’infanzia, un dato inferiore all’obiettivo europeo del 33%. Questa carenza di strutture e posti disponibili penalizza soprattutto le famiglie con minori risorse economiche, limitando la possibilità per i genitori, in particolare le madri, di conciliare lavoro e cura dei figli.
L’unico aspetto che mostra un progresso significativo è la digitalizzazione del sistema educativo, che ha registrato un incremento di 37,2 punti rispetto al 2018. Tuttavia, questo miglioramento da solo non è sufficiente a colmare il divario tra chi può accedere a un’istruzione di qualità e chi, invece, è ancora escluso da opportunità educative adeguate

Le donne tra marginalizzazione e disuguaglianze economiche

Nonostante il crescente livello di istruzione, le donne in Italia continuano a essere il gruppo più esposto alla marginalizzazione e alla violazione dei diritti umani. Se da un lato il 34,3% delle donne tra i 30 e i 34 anni è laureato, un dato superiore a quello degli uomini della stessa fascia d’età (25,6%), dall’altro questa maggiore qualificazione non si traduce in pari opportunità nel mondo del lavoro. Il tasso di occupazione delle donne con almeno un figlio o una figlia (0-5 anni) è pari al 73% rispetto a quello delle donne senza figli o figlie. Le madri del Sud sono le più colpite: il tasso di occupazione delle donne con figli non supera, infatti, il 69,5% rispetto a quello delle donne senza figli. Maglia nera alla Sicilia, dove la percentuale scende al 61%.

La maternità continua a rappresentare, quindi un ostacolo significativo alla carriera lavorativa femminile, evidenziando come la mancanza di misure di sostegno alla genitorialità e di servizi per l’infanzia accessibili penalizzi in modo particolare le madri.
Oltre alla discriminazione economica e lavorativa, le donne in Italia devono affrontare anche una preoccupante esposizione alla violenza di genere. Il WeWorld Index 2025 evidenzia un peggioramento della sicurezza per le donne, con un aumento dei casi di violenza domestica e femminicidio. Nel 2024 sono stati registrati 119 femminicidi, un numero in crescita rispetto agli anni precedenti, e il 31,5% delle donne ha subito almeno una forma di violenza fisica o sessuale nel corso della propria vita. Le denunce per maltrattamenti in famiglia sono aumentate del 12% rispetto al 2023, segnale di un fenomeno ancora profondamente radicato nella società italiana. Lombardia, Lazio e Campania sono le regioni con il più alto tasso di violenza di genere, mentre il fenomeno risulta meno diffuso nelle regioni del Nord-Est.

Nessun sostegno per le famiglie

Il report evidenzia, inoltre, come l’Italia continui a non sostenere adeguatamente le famiglie. Mancano infatti politiche efficaci a sostegno della genitorialità e questa assenza, oltreché avere un impatto negativo sul benessere delle famiglie, si traduce automaticamente in un freno all’occupazione femminile. A ciò contribuisce anche il fatto che, come sottolinea la ricerca, il congedo parentale per i padri “sia ancora un privilegio per pochi, insufficiente e scarsamente utilizzato”, lasciando sulle madri il peso del lavoro di cura. La soluzione, suggerisce il report, risiede nella genitorialità condivisa su cui però in Italia manca ancora un reale impegno.

«Sentiamo parlare continuamente nel discorso politico di famiglia, eppure le famiglie reali – quelle fatte di madri che lottano per conciliare lavoro e vita privata, di padri che vorrebbero ma non possono essere presenti, di bambini e bambine privi di servizi essenziali – restano fuori dalle priorità del Paese. Per non parlare delle famiglie non tradizionali, monoparentali, con background migratorio, omogenitoriali, i cui bisogni restano completamente ai margini», dichiara Dina Taddia, Consigliera Delegata di WeWorld.

Il rapporto evidenzia anche le resistenze culturali e istituzionali nel riconoscere la diversità dei modelli familiari. Le politiche sociali italiane rimangono ancorate a una visione tradizionale della famiglia, escludendo molte realtà che faticano a ottenere il riconoscimento dei propri diritti. È il caso, per esempio, delle coppie omogenitoriali che non hanno ancora pieno accesso all’adozione e alla genitorialità, o delle famiglie con background migratorio che faticano a ottenere la cittadinanza, necessaria per accedere a diritti fondamentali, e affrontano barriere burocratiche, linguistiche e culturali nei servizi educativi e sanitari.

Il lavoro femminile tra discriminazione e stereotipi

Il Report 2025 fa un focus sul tema disuguaglianza di genere nel mondo del lavoro grazie ai dati di un’indagine inedita Ipsos. L’indagine è stata condotta su un campione rappresentativo di 1.100 lavoratori e lavoratrici tra i 20 e i 64 anni e i risultati confermano quanto gli indicatori lasciavano presagire: il mercato del lavoro italiano sia ancora condizionato da stereotipi di genere e da una distribuzione iniqua del carico familiare.

Per fare un esempio, Il 64% delle persone intervistate segnala l’assenza di opportunità di smart working nelle proprie aziende. Sebbene sia uno strumento utile per tutti, risulta particolarmente vantaggioso per le donne, che ne fanno un uso più frequente rispetto agli uomini, a causa della necessità di maggiore flessibilità legata alla disparità nella distribuzione del lavoro di cura.

Male anche sul fronte della discriminazione di genere nei colloqui di lavoro. Dall’indagine emerge infatti come sia ancora piuttosto diffusa con il 61% delle donne a cui è stato chiesto se avessero figli o figlie, e il 44% che hanno dovuto rivelare se stessero pianificando di averne. A una donna su quattro (25%) è stato chiesto se fosse incinta, mentre gli uomini hanno riferito che le informazioni richieste, in sede di colloquio, riguardano la salute (35%), il lavoro svolto dai genitori (34%) e l’appartenenza sindacale (31%).
«Per garantire un’effettiva parità di opportunità – spiega Martina Albini, coordinatrice centro studi di WeWorld servono politiche di welfare strutturali, che includano congedi parentali equamente distribuiti, maggiore accesso allo smart working e un cambiamento culturale che superi le discriminazioni ancora presenti nei processi di selezione e nelle carriere professionali».

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