«Il paradosso è evidente: da un lato la lingua viene dichiarata estranea, ininfluente rispetto alle battaglie per la cittadinanza femminile, dall’altra viene individuata come terreno d’intervento correttivo». Parte da qui in “Includere o esprimere? Come (e perché) le donne hanno cambiato la lingua” (Il Calamo, 2024) la filosofa del linguaggio Fabrizia Giuliani, docente alla Sapienza di Roma, per offrire una riflessione a tutto campo sul rapporto tra lingua e genere e sul contributo del pensiero femminile e dell’ingresso delle donne nella sfera pubblica alla trasformazione del linguaggio. Con un obiettivo che riesce pienamente: far capire perché la questione della lingua evoca la categoria dell’espressione più che quella dell’inclusione, mostrare quanto «sia vitale esprimere nella lingua la differenza».
Il raffinato saggio di Giuliani, che è anche la coordinatrice del comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio anti-violenza istituito al dipartimento Pari opportunità (che ha redatto il primo Libro bianco per la formazione) ed è stata deputata del Pd, è una lettura utilissima anche per esaminare senza semplicismi le scelte del Governo in materia linguistica, dalla prima decisione della premier Giorgia Meloni di farsi chiamare “il Presidente” (dopo il tentativo iniziale, ancora più problematico dal punto di vista comunicativo, di proporre “Signor Presidente”) all’ultima circolare ai presidi inviata dal ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, che vieta l’utilizzo di asterischi e schwa a scuola. Pretese diverse e incoerenti di controllare la lingua. Vediamo perché.
Le insidie del maschile non marcato
Nel primo caso, la scelta è stata compiuta in aperta violazione della regola a cui già nel 2013 l’Accademia della Crusca raccomandava di attenersi: l’uso delle forme femminili per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne. Regola semplicissima da seguire, peraltro, nei casi in cui i nomi siano ambigenere come “presidente”: basta declinare al femminile l’articolo che li precede, come insegnano i libri di grammatica sin dalle elementari.
La premier – come fanno ancora tante donne – ha scelto di rigettare il femminile per affermare il carattere neutrale dei lessemi che designano la sua carica. Il “maschile non marcato” – spiega Giuliani – è infatti spesso inteso come capace di riferirsi in modo inclusivo anche alle donne. Ma contro questa convinzione si batteva già Olympe de Gouges nel suo scritto settecentesco sulla valenza dell’iperonimo “homme” nella “Déclarations des droits de l’homme e du citoyen”. Hanno continuato nel Novecento filosofe come Irigaray, Cavarero, Agacinski, Muraro, denunciando l’espulsione del corpo e della differenza sessuale dal discorso di verità filosofico. Le donne come oggetto del racconto segnato dal linguaggio altrui: ecco la conseguenza contro cui le femministe hanno combattuto.
«Dichiarare la neutralità delle cariche per omettere il femminile vuol dire chiedere alla lingua di non dare conto del cambiamento avvenuto, ossia della diffusa presenza di sindache, presidenti e ministre. Detto altrimenti, le cose sono cambiate, ma non si deve dire». Il maschile universale fintamente neutro, che per secoli ha rappresentato il dominio quasi esclusivo degli uomini nella sfera pubblica, continua così a proiettare la sua ombra anche in una società dove alle donne è riconosciuta parità di diritti e di opportunità.
Linguaggio e cittadinanza
Ma torniamo alla domanda iniziale: se la lingua non conta da dove nasce l’urgenza di dare indicazioni esplicite? L’effetto paradossale è lampante. Scrive Giuliani: «Nello stesso momento in cui Meloni afferma l’irrilevanza della lingua sul terreno politico, dichiarando che “la grandezza della libertà delle donne non è farsi chiamare capatrena”, finisce per assumerla come tratto identitario». E per confermare ciò che prova a confutare sul piano formale, ovvero che «parlare non è mai neutro».
Un tema centrale per filosofe e intellettuali del Novecento, a cui Giuliani dedica il primo capitolo del libro per raccontare quanto sia intrecciato con il cammino delle donne verso la pienezza della cittadinanza (come dimostrano le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, scritte nel 1987 da Alma Sabatini). Le parole – spiega la filosofa – sono parte della nostra vita sociale e concorrono a costruirne l’assetto: «Non possiamo dimenticarcene né agire d’autorità su di esse». Perché la lingua non è docile, non tollera imposizioni: «I cambiamenti passano solo attraverso il concenso, ossia l’uso che ne fa la comunità dei parlanti».
La resistenza o il rifiuto dei femminili professionali, da “ministra” a “direttrice”, motivato dall’argomento che il femminile lede l’autorevolezza della carica, rivela il conflitto intorno al mutamento sociale, il pregiudizio secondo cui è bene che le donne restino fuori dalla polis o almeno dai suoi vertici. Non si spiega altrimenti perché “infermiera” o “maestra” o ancora “operaia” non incontrino alcun ostacolo: attengono a mansioni che non rompono alcun ordine.
Giuliani cita un passo poco noto di Gramsci che vale la pena riportare: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolar-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale».
Il caso della parola “femminicidio”
Un passaggio, quest’ultimo, che a Giuliani serve anche per sfatare un altro equivoco, un «rovesciamento interpretativo sbagliato»: quello secondo cui le richieste delle donne siano rivendicazioni di una parte svantaggiata della popolazione, minoritaria, a dispetto dei fatti. Non è così: in gioco c’è «l’accesso al significato di aree dell’esperienza rimosse».
Qui Giuliani riepiloga gli ostacoli incontrati dalla parola “femminicidio” – il crimine che colpisce le donne in ragione del loro sesso – fino al riconoscimento nel 2023 come termine dell’anno dall’enciclopedia Treccani (che lo aveva già incluso tra i neologismi nel 2008) per «responsabilizzare e sensibilizzare ulteriormente lettori e lettrici su una tematica che si è posizionata al centro dell’attualità».
Ancora una volta – nota Giuliani – l’uso ha deciso. Il bisogno al quale la parola risponde ha travolto ogni obiezione. E vedremo se il disegno di legge del Governo che ne ha proposto l’introduzione nel Codice penale concluderà il suo percorso. Segnerebbe un’altra rivoluzione linguistica: l’ingresso della parola “donne” nel Codice.
La lingua del giudice
Un altro capitolo è dedicato alla “lingua del giudice” e sviluppa l’analisi di 251 sentenze sulla violenza contro le donne, parte centrale della ricerca di Giuliani svolta nell’ambito del progetto Step. Una galleria di pregiudizi che hanno effetti molto concreti. Antonio Gozzini, 78 anni, che ha ucciso la moglie nel 2019 prima colpendola con un martello e poi accoltellandola, viene assolto con la motivazione di essere affetto da «delirio di gelosia». Nella pronuncia della Cassazione si definisce «prostrato dalla delusione per le tante aspettative che aveva riposto nel matrimonio».
La dimensione giustificatoria prevale in ogni narrazione, ogni responsabilità è annullata dall’«accesso ideativo». Gozzini è ritratto come incolpevole, gli aggettivi a lui riferiti insistono tutti nell’area semantica dell’autocommiserazione e del dolore: sparisce l’assassino, al suo posto un ottantenne terrorizzato dalla perdita del suo unico punto di riferimento.
Dall’altro lato, il lavoro di Giuliani permette di rilevare lo sforzo proteso dai giudici nel dimostrare la lucidità delle testimonianze delle vittime. Non si tratta soltanto di verificarne la credibilità, ma anche della certezza della «stabilità emotiva» delle donne. Ecco un altro stereotipo all’opera: la credenza che le donne incontrano maggiori difficoltà nella gestione del proprio stato emotivo e dunque l’impegno del giudice di dimostrare che le loro dichiarazioni non sono dettate da rabbia, rancore o desiderio di vendetta.
Le vittime, in sintesi, sono sempre costrette a difendersi: dai tentativi di essere screditate, dall’antica resistenza a essere credute. Dallo sforzo perenne di dimostrare che il rifiuto espresso in realtà fosse consenso. Il capovolgimento dei fatti è quasi sempre una questione di parole, perché il lessico utilizzato è una parte decisiva della rappresentazione.
Inclusione vs espressione della differenza
In un libro che è un inno all’espressione della differenza nel linguaggio, e al ruolo delle donne in questo progresso, non sorprende che l’argomento di asterischi e schwa sia affrontato soltanto nell’introduzione. «È interessante – scrive Giuliani – il ritorno di strategie antidiscriminatorie fondate sulla riproposizione di forme neutre percepite come le sole in grado di garantire inclusione anche a chi non si riconosce nei due generi. Una discussione importante, che rinvia alla nostra identità umana, alle nostre relazioni, ai nostri equilibri sociali, come la storia ci mostra». Ma questa soluzione non permette di contrastare la radice della discriminazione: «Un modello fondato sull’affermazione dell’unicità di un soggetto – maschile – e il conseguente disconoscimento/disvalore di ogni differenza». Ogni forma neutra richiama questo vizio. «Il punto, dunque, è l’espressione, più che l’inclusione», la piena manifestazione dei segni della differenza al posto della loro cancellazione.
La circolare di Valditara inviata ai dirigenti scolastici, letta con le lenti offerte dal saggio di Giuliani, appare incoerente. «L’Accademia della Crusca – recita la direttiva – ha avuto modo di precisare più volte che l’impiego nella comunicazione scritta e istituzionale di segni grafici, come gli asterischi, al posto delle desinenze o di altri segni estranei alla tradizione ortografica italiana, come lo schwa, non è grammaticalmente corretto secondo le attuali regole della lingua italiana. Pertanto, è stato raccomandato di attenersi alle strutture grammaticali codificate per garantire chiarezza, leggibilità e accessibilità di testi e documenti».
Ma dov’è il richiamo della Crusca, ormai consolidato, all’uso dei femminili professionali al posto del maschile non marcato? Perché vietare per circolare asterischi e schwa (e quanto sono realmente usati nelle nostre scuole?) e invece, in tutte le comunicazioni istituzionali dell’Esecutivo, insistere con “il Presidente” e “il Ministro” riferiti alle donne? Se proprio si sceglie di intervenire sulla lingua – un atto politico – allora la solerzia del “grammaticalmente corretto” e lo scudo della Crusca non possono valere soltanto per vietare i segni che non piacciono al Governo.
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Titolo: “Includere o esprimere? Come (e perché) le donne hanno cambiato la lingua”
Autrice: Fabrizia Giuliani
Casa editrice: Il Calamo, 2024
Prezzo: 20 euro
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