In questo momento nel mondo 50 paesi sono coinvolti in conflitti armati di diversa estensione e intensità. Dalla Palestina all’Ucraina, dal Myanmar al Messico, negli ultimi cinque anni, i livelli di conflitto sono quasi raddoppiati. Nel 2020, sono stati registrati 104.371 eventi di conflitto; nel 2024, nello stesso periodo, quasi 200.000 (dati Acled, Armed Conflict Location & Event Data).
La Palestina è stato dichiarato il posto più pericoloso e violento al mondo: al 18 febbraio 2025, 48.291 palestinesi e 1.706 israeliani hanno perso la vita nella guerra di Gaza, così come 166 giornalisti e operatori dei media e oltre 224 operatori umanitari. L’81% della popolazione palestinese è stata esposta al conflitto più pericoloso e diffuso nel 2024, mentre quello in l’Ucraina è stato dichiarato il conflitto più mortale.
In un mondo in cui le notizie si susseguono rapidamente, mantenere viva l’attenzione sulle crisi umanitarie è un compito che coinvolge tutti noi a vario titolo. In quest’orizzonte anche l’arte può creare uno spazio di riflessione duraturo: generando empatia, rendendo più tangibile l’impatto della guerra su vite reali, dando voce a chi non ne ha, gli artisti possono amplificare le testimonianze di chi vive la guerra, raccontando prospettive che altrimenti resterebbero inascoltate.
Home sweet home: immagini di resistenza dalla Palestina
Il 21 febbraio WeWorld inaugura a Milano la mostra fotografica che racconta storie di resistenza quotidiana dal territorio palestinese occupato, attraverso gli scatti delle fotografe Michela Chimenti e Alessia Galli. Aperta al pubblico dal 21 febbraio all’11 marzo, la mostra, curata da Micaela Calabresi, fa parte di un progetto fotografico lanciato a novembre che offre uno sguardo intimo sulla vita in Palestina e ogni immagine cattura storie che raramente trovano spazio sui nostri schermi. Immortalate negli scatti vi sono persone che con lo sguardo e con i gesti del quotidiano raccontano l’esperienza di chi vive tra violazioni di diritti, occupazione e difficoltà.
«Tornare in Palestina dopo il 7 ottobre ha avuto un impatto profondamente diverso rispetto alle volte precedenti» racconta la fotografa Alessia Galli. «Camminare per le strade di Gerusalemme e Betlemme, tornare al mercato di Hebron e Nablus è stato uno shock: le strade solitamente gremite di profumi, colori e suoni, erano quasi spettrali. La tragica situazione non ha impedito ai palestinesi di raccontarci cosa stanno vivendo e di chiederci, per l’ennesima volta, di far sentire le loro voci nel mondo. Il pensiero che più ci sconvolge e a cui non sappiamo dare risposta, è che a distanza di pochi mesi non sappiamo che fine abbiano fatto le persone che abbiamo incontrato».
Durante il loro viaggio, le fotografe hanno visitato anche i progetti di WeWorld, che ha iniziato a operare in Cisgiordania nel 1992 e a Gaza nel 1997. Durante gli anni, l’Organizzazione ha esteso il suo raggio d’azione in tutte le aree della Cisgiordania fornendo attualmente assistenza a 200 comunità, per proteggerle e migliorarne l’accesso ai servizi essenziali. Anche il tema della giustizia mestruale è profondamente sentito: lavorare per la giustizia mestruale in Palestina significa garantire a donne e ragazze il diritto di vivere le mestruazioni in dignità e sicurezza, nonostante le difficoltà imposte dall’occupazione, anche considerando che la povertà mestruale non riguarda solo l’accesso ai prodotti igienici, ma è anche fortemente condizionata dai tabù che limitano la libertà personale.
«Occupandomi di povertà mestruale da quasi dieci anni, è straordinario e doloroso allo stesso tempo, vedere come le donne in parti del mondo e con culture così diverse, subiscano lo stesso identico stigma riguardante le mestruazioni. Le mestruazioni sono un tabù e anche solo osare dire la parola “mestruazioni” ad alta voce in pubblico è un tabù, e non c’è bisogno di andare all’estero per scoprirlo. Ecco perché è importante far sentire la propria voce su questi temi, a prescindere dal Paese in cui ci trova, perché lo stigma non ha confini. Quando però si arriva in zone di conflitto e occupazione, come la Cisgiordania, oltre allo stigma, le ragazze e le donne devono anche affrontare la scarsità o assenza di dispositivi mestruali. A questo si aggiunge l’accesso ad acqua pulita e a standard igienico sanitari non adeguati alle circostanze. La mostra vuole raccontare anche e soprattutto le conseguenze del conflitto e dell’occupazione sulla popolazione femminile palestinese» ha dichiarato Michela Chimenti.
Non dimenticare l’Ucraina: un’installazione a Milano
Un girasole di metallo alto tre metri che si erge su un terreno di macerie: inaugurata a Milano, all’interno del parco della Biblioteca degli Alberi (BAM), l’istallazione simbolica “(Un)forgotten Ukraine – A symbol of hope, a reminder of loss”, un’opera d’arte dall’artista Mauro Seresini. Promossa dalla Rappresentanza della Commissione europea per il Nord Italia e dall’Ufficio del Parlamento europeo a Milano, l’iniziativa ha l’obiettivo di tenere accesi i riflettori sulla guerra e sulle sue drammatiche conseguenze.
A 3 anni dallo scoppio del conflitto, in Ucraina una persona su tre (12,7 milioni) ha bisogno urgente di supporto umanitario 5 : 1 milione di bambini, più di 3 milioni di donne (3,3) e 6 milioni di persone anziane e con disabilità dipendono dagli aiuti per sopravvivere 6. Solo nel primo anno di guerra sono state distrutte 2 milioni di case e neppure strutture civili, come ospedali e scuole, sono state risparmiate dagli attacchi: 2 mila scuole hanno subito danni e quasi 400 strutture educative sono state completamente distrutte, privando un’intera generazione di bambini ucraini del diritto 7.
Le infrastrutture civili sono state devastate, con gravissime ripercussioni sull’accesso ai servizi essenziali come acqua, gas e riscaldamento, soprattutto nelle zone lungo la linea del fronte e nelle aree al confine con la Russia. Oltre 6,8 milioni di persone sono fuggite dal Paese, mentre circa 3,6 milioni sono ancora oggi sfollati interni. (Dati raccolti da Fondazione CESVI, che con Factanza Media e Mirror, ha collaborato alla realizzazione dell’installazione.)
«L’Unione europea resterà al fianco dell’Ucraina per tutto il tempo necessario. Nessuno vuole la pace più del popolo ucraino e non si può decidere dell’Ucraina senza l’Ucraina, se si vuole una pace che sia giusta e duratura. Per questo l’Unione europea continuerà a fornire solidarietà e sostegno all’Ucraina e al suo popolo» ha ribadito Claudia Colla, Capo Rappresentanza della Commissione europea nel corso dell’inaugurazione il 21 febbraio. «- La Commissione europea ha fortemente voluto questo progetto locale ma di respiro internazionale: con il girasole, simbolo del popolo ucraino, vogliamo rendere omaggio alla resistenza e alla speranza di tutte le ucraine e gli ucraini».
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