“Non esiste gioia più grande dell’avere un orizzonte in costante cambiamento, del trovarsi ogni giorno sotto un sole nuovo e diverso”.
Parlava così Christopher McCandless, il viaggiatore avventuroso e idealista la cui storia, raccontata da Jon Krakauer, prima, e dal film “Into the wild”, poi, ha ispirato milioni di giovani in tutto il mondo. Un inno alla ribellione consapevole e alla fame di nuove esperienze che, in molti casi, prende avvio con il cosiddetto gap year, l’anno sabbatico, in cui tutto ciò che è abitudine e quotidianità viene messo in pausa.
Un aiuto per orientarsi
L’anno sabbatico potrebbe essere una risposta al disorientamento che serpeggia tra i ragazzi e le ragazze italiane. Secondo un’indagine di Inapp, il 73% dei giovani non ha idea di quale lavoro svolgerà in futuro o quali competenze vorrà sviluppare. Prendersi un anno o anche solo qualche mese di tempo per fare esperienze diverse da un percorso già tracciato, potrebbe fare la differenza.
«Da esperta nella selezione del personale la ritengo una scelta molto saggia – fa sapere Silvia Corani, responsabile commericale di una piattaforma HR tech, con un passato in realtà come Yoox e Pandora -. Mi è capitato anche recentemente di raccomandare un gap year a una studentessa indecisa sul suo percorso accademico. In casi come questo, vale la pena di ricordare il proverbio giapponese che dice “Se sali sul treno sbagliato, scendi alla prima fermata. Più a lungo resti, più costoso diventa il viaggio di ritorno”. Le ho consigliato di lasciare subito l’università, scegliere un semestre di lavoro all’estero e rafforzare la sua conoscenza dell’inglese. Lei è volata in Australia con un visto di 6 mesi e adesso sta lavorando felicemente nel settore della ricettività, perfezionando la lingua, accrescendo le sue competenze e migliorando la consapevolezza personale» spiega Corani, che ricorda di avere lei stessa vissuto un periodo di gap year.
«È stato dettato da scelte di coppia che mi hanno consentito di studiare lo spagnolo e l’inglese, vivere all’estero a Caracas e a San Francisco e sviluppare una consapevolezza cross-culturale che non avevo prima di partire e che mi è stata utilissima per gestire i successivi incarichi con team internazionali». E assicura: «Per un recruiter, il gap year nel cv rappresenta un motivo di interesse e un’area da esplorare: il candidato o la candidata dovrà aspettarsi una domanda specifica sulle motivazioni e le condizioni che l’hanno generato ed è necessario che la risposta sia coerente e razionale e non emotiva e destrutturata».
Quanto è diffuso il gap year?
Secondo uno studio condotto da Skuola.net con Elis, il 16% delle studentesse e degli studenti italiani, una volta conseguito il diploma, si prende del tempo per riflettere sul proprio futuro. Una percentuale che cresce (era l’11% solo nel 2021) ma ancora troppo lentamente. A spingere i ragazzi e le ragazze a scegliere un periodo sabbatico è, nel 30% dei casi, la voglia di fare esperienze che vadano oltre il tradizionale binomio studio-lavoro. Il 28%, invece, vuole evitare scelte sbagliate, per questo preferisce fermarsi e riflettere.
È stato così per Arianna Sorricchio, oggi consulente di marketing, che ha vissuto il gap year in due occasioni: «La prima volta avevo 19 anni, avevo iniziato l’università da poco ma mi ero accorta di non rispecchiarmi in quel percorso. Nel secondo caso, invece, avevo 24 anni e ho interrotto il lavoro che stavo facendo per ridefinire il mio percorso professionale. Ho usato il “tempo sabbatico” per studiare e formarmi nel campo del digital marketing e impostare la mia nuova carriera. Ho perso molti amici per quella decisione apparentemente incomprensibile e anche i miei genitori pensavano che stessi semplicemente perdendo tempo prezioso. Invece – assicura – quel tempo è stato l’investimento migliore per il mio futuro».
Del resto, il gap year è tutt’altro che un periodo di stop. Se ben ponderato è un’occasione per fare spazio e ascoltarsi. In molti casi, può diventare una vera e propria sliding door. Gaia Pellegrini, social media manager e content creator per il Parlamento europeo, racconta che dopo la laurea triennale in mediazione linguistica a Padova, in attesa di poter rientrare nel master “Erasmus Mundus” con cui avrebbe voluto proseguire il suo percorso di formazione, ha scelto di trasferirsi a Bruxelles per un anno cercando un tirocinio che le consentisse di fare esperienza sul campo.
Al tirocinio ha poi affiancato un lavoro da babysitter: «È stata un’opportunità straordinaria: mi ha fatto capire che la politica e le relazioni internazionali mi piacevano moltissimo e in un certo senso mi ha portata dove sono oggi. Lo consiglio a tutti coloro che sono indecisi su cosa fare nel futuro».
Il gap year a trent’anni?
Non solo studenti e studentesse: anche se si è già in una fase avviata di carriera, si può scegliere di scommettere sul gap year. «Lavoravo in banca da qualche anno quando mi sono chiesto: “ma davvero la mia vita è tutta qui?”» – confida Riccardo Caserini, oggi senior account director di LinkedIN. Quella domanda martellante l’ha spinto a partire ben due volte: la prima a 27 anni, direzione San Diego, la seconda a 30, per un giro intorno al mondo inseguendo le onde migliori per il surf, dalla Nuova Zelanda alle Hawaii.
«In entrambi i casi, non stavo scappando, ma sapevo quali cambiamenti avrei voluto apportare nella mia vita». Certo, il rientro in Italia non è stato semplice: «Era il 2002, nessuno capiva le mie scelte. Molte piccole e medie imprese faticano a comprendere l’importanza di un gap year anche oggi. Con le aziende internazionali è diverso, specie se sono nord europee per le quali non avere un periodo sabbatico nel curriculum è quasi un disvalore». «Nel CV degli studenti inglesi è sempre previsto un anno di pausa tra la laurea e il master» – conferma infatti Corani.
Ma la paura di non trovare un approdo sicuro al rientro non è una buona ragione per non partire. «A ogni età e in ogni contesto si trovano validi motivi per non concedersi un gap year: appena laureato pensi di dover entrare subito nel mondo del lavoro e quando già lavori da qualche anno, temi di avere troppo da perdere, dallo stipendio alla promozione, ma farlo significa aprirsi a opportunità inaspettate» – riprende Caserini.
Ogni due anni, un periodo “a maggese”
Il punto è: essere consapevoli di qual è la motivazione reale che ci spingere a rallentare e a esplorare nuove strade. Senza dimenticare che il gap year non è un periodo di vacanza, richiede quindi un sostentamento economico che può essere raggiunto in diversi modi: lavorando in loco, risparmiando prima di partire, scegliendo Paesi e sistemazioni poco costose, chiedendo ospitalità ad amici che abitano in diverse parti del mondo o partecipando a programmi internazionali di volontariato che forniscano vitto e alloggio.
Sabrina Brabante, blogger e blogging coach, ha scelto di fare un gap year mentre già lavorava da oltre dieci anni nell’ufficio comunicazione di una Onlus con sede a Milano. «Avevo più di trent’anni e volevo capire se la mia vita professionale e personale sarebbe stata per sempre quella. Così, ho dato le dimissioni e con il Tfr ho iniziato a viaggiare: da New York alla Provenza, per poi tornare lì dove sono nata, in Puglia, e scegliere di mettere radici».
Anche il viaggio di Sabrina è avvenuto in tempi non sospetti, quando il nomadismo digitale non era ancora cosa nota. «Parliamo del 2012, pochissime persone si sarebbero sognate di lasciare un posto di lavoro come il mio per una strada ignota. Sono stata coraggiosa, certo, ma anche fortunata, perché intorno a me tutti mi hanno capita. E io, ho imparato moltissimo, tanto che tutt’ora, cerco di fare delle scelte economico-finanziarie che mi consentano, ogni due o tre anni, di prendermi un periodo di stacco più o meno lungo per uscire dal seminato, guardarmi da lontano e capire se la vita che sto vivendo è ancora quella che desidero per me». Lei lo chiama “il suo periodo a maggese”. «Non sono ricca di famiglia e nulla è scontato, ma ne vale decisamente la pena» – assicura.
L’imprenditore Luca Mastella, invece, ha scelto di lavorare viaggiando. Non un vero e proprio gap year, quindi, ma un modo per provare comunque a mettere in discussione lo status quo. «Ho vissuto per sette anni all’estero in passato ed entrare in contatto con culture differenti è sempre stata una grandissima fonte di ispirazione ed energia per me. Per questo, la scorsa estate ho scelto di viaggiare e lavorare per due mesi e mezzo tra Indonesia, Thailandia, Giappone e Corea. È una scelta che consiglierei purché si sia consapevoli dei propri impegni e delle proprie esigenze: il viaggio deve adattarsi agli obiettivi e non il contrario. Può essere anche molto faticoso». E continua: «In ogni caso, penso che un periodo di gap sia fondamentale in molte fasi della propria vita e nessuno dovrebbe mai sentirsi penalizzato per aver avuto il coraggio di dirsi “devo fermarmi”».
Gap year: percezione diversa, dagli USA alla Svezia
Il tema del giudizio, proprio e degli altri, torna ancora una volta. Gary Clark, esperto di gap year e direttore di SIA Austria, accademia che forma maestri di scii, riconosce che la percezione del gap year è ancora molto diversa a seconda del contesto. «Nei Paesi in cui l’anno sabbatico è incoraggiato, ci si concentra maggiormente sulla crescita personale e sulla felicità generale. Dove, invece, il lavoro è visto come elemento centrale della propria vita, i gap year sono disapprovati. Ciò che non si comprende, in questi casi, è che l’anno sabbatico è un vero e proprio investimento sulle persone. Offrire del tempo libero per ricaricarsi non è solo qualcosa di generoso, ma è conveniente e lungimirante» afferma, portando ad esempio alcuni Stati.
In primis, la Svezia. Qui, prendersi delle ferie non è solo accettato, ma è parte integrante del sistema. I lavoratori e le lavoratrici svedesi possono usare fino a 6 mesi di congedo (non retribuito) per fare altro (finanche provare a creare una propria impresa), con il diritto di tornare a ricoprire lo stesso ruolo in azienda al termine del congedo. È un modo per stimolare la creatività e allo stesso tempo migliorare la salute mentale delle persone. Un tema chiave, considerando che secondo il rapporto 2024 Global Talent Trends, lo scorso anno circa l’82% dei dipendenti di tutto il mondo era a rischio di burnout, con il 40% che citava l’esaurimento come fattore determinante.
In Danimarca, ad esempio, la felicità si ritiene che sia direttamente legata alla produttività, e viceversa. Per questo, l’equilibrio vita-lavoro è considerato una priorità e i congedi sono pensati per garantire una vita più sostenibile. Parliamo di modelli molto diversi da quello italiano e americano. Negli Stati Uniti, ad esempio, le ferie sono spesso viste come un rischio per la carriera, anche se questo significa raggiungere livelli elevati di stress. E anche in alcune zone dell’Asia le interruzioni di carriera possono essere stigmatizzate, soprattutto nei settori in cui la fedeltà è apprezzata più di ogni altra cosa. Questo non significa che il cambiamento non stia avvenendo, ma solo che in alcuni luoghi avviene più lentamente che in altri.
L’aspettativa in Italia
In Italia l’aspettativa per motivi personali non è disciplinata da un’unica legge, ma varia a seconda dei contratti collettivi nazionali di lavoro oppure dipende dagli accordi individuali tra datore di lavoro e dipendente e dai regolamenti aziendali. È necessario fare una richiesta esplicita all’ufficio del personale, specificando le motivazioni per cui si richiede un’aspettativa e la sua durata. È un diritto che si matura a seconda del contratto di riferimento, ad esempio nel ccnl del commercio e nel ccnl metalmeccanico e industria è possibile chiedere un’aspettativa non retribuita per gravi motivi personali e familiari (il sabbatico rientra, di fatto, nei “motivi familiari”) e l’azienda può decidere se accettare o respingere la richiesta a seconda delle esigenze dell’organizzazione. Il periodo non è retribuito e non concorre alla maturazione di ferie, Tfr e tredicesima. L’altra opzione è, come hanno raccontato Sabrina e Riccardo, dimettersi.
Nell’ultimo periodo, ci sono anche aziende che provano a sperimentare consapevoli di quanto la tendenza al gap year stia crescendo. Tra queste, Growens, società di tecnologie per il marketing, che ha lanciato un programma dedicato a migliorare l’equilibrio vita-lavoro delle e dei dipendenti grazie a congedi straordinari, tra cui proprio il congedo sabbatico retribuito. L’obiettivo è mettere al centro il tempo come fattore cruciale di benessere: «Vorremmo spingere i dipendenti a dedicarsi anche a progetti personali, oltre che a investire sul proprio percorso professionale. Siamo convinti, infatti, che offrire congedi estesi e strutturati non solo migliori la qualità della vita delle persone, ma rafforzi anche la resilienza delle imprese» – commenta Enrica Lipari, responsabile del personale dell’azienda.
Se il periodo sabbatico è per tutta la famiglia
Un caso che sta progressivamente crescendo, inoltre, è quello delle famiglie in viaggio. In Alto Adige, lo chef e manager Ben Schneider e la product manager Doris Troger, hanno utilizzato i loro congedi parentali per trascorrere tre mesi in Thailandia con i loro due bambini piccoli. «Volevamo dare valore al tempo, soprattutto a quello trascorso con i nostri figli, crescere insieme come famiglia e condividere momenti unici, scoprendo una nuova cultura». Una decisione che è stata valutata in modo diverso dalla società: «Io mi sono sentita giudicata da molte persone che temevano stessi esponendo i miei figli a dei rischi per il semplice fatto di partire per un Paese esotico, mentre la decisione di Ben di assentarsi dal lavoro per dedicare del tempo alla famiglia, pur essendo un manager con numerose responsabilità, è stata molto apprezzata e ammirata. Quasi come fosse un pioniere» – confida Doris.
In definitiva, il modo in cui si affrontano le interruzioni di carriera dice molto più di ciò che si creda. Su di noi e sugli altri. Fare un passo indietro a volte può essere trasformativo. Darsi il tempo per fermarsi, prima di agire, può riconnetterci a ciò che davvero desideriamo e darci una spinta più forte per ripartire. E questo, vale a ogni età.
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