Linguaggio inclusivo, le linee guida della Fondazione Diversity

Il linguaggio ha un potere straordinario: costruisce narrazioni, alimenta pensieri e può, nel bene e nel male, influenzare profondamente la società. Chi desidera impegnarsi a promuovere una comunicazione rispettosa, capace di rappresentare le diverse identità che compongono il nostro ambiente sociale, rinunciando alla prevaricazione insita nella normatività, ha oggi a disposizione un nuovo strumento: le Linee guida per il linguaggio inclusivo pubblicate dalla Fondazione Diversity.

Nel cammino verso la parità, spesso ci concentriamo su politiche, strutture fisiche o soluzioni tecnologiche, talvolta trascurando un aspetto altrettanto cruciale: il modo in cui comunichiamo, le parole che scegliamo, i concetti che esprimiamo non solo riflettono la nostra visione del mondo, ma contribuiscono a plasmarla. Il linguaggio non è neutrale, le parole che scegliamo di usare plasmano la nostra percezione e quella degli altri. Come si spiega nella guida: «Il linguaggio ha il potere di unire o dividere, di includere o escludere, determinando se la persona che ci ascolta si senta accettata o respinta, e possa esprimere il proprio valore nella società».

Il dibattito sul maschile universale

La guida di Diversity Lab non è solo un invito a riflettere su quanto le parole possano condizionare la nostra realtà, ma anche uno strumento per portare alla luce quanto il linguaggio sia un terreno di battaglia fondamentale nella lotta per una società equa. Uno degli aspetti di questa riflessione è il dibattito nato negli ultimi anni sull’uso del maschile universale nella lingua italiana. Tradizionalmente, nella nostra lingua, ci si rivolge a gruppi di persone di genere diverso utilizzando la forma maschile (ad esempio, “gli studenti”, “gli amici”, “i lavoratori”).

Anche la maggior parte dei nomi di professioni è stata storicamente declinata principalmente al maschile e solo in alcuni casi si è espansa al femminile (come “il direttore” e “la direttrice”), una tendenza che, ahimé, ancora sembra non essere superata, laddove persino alcune donne preferiscono essere declinate professionalmente al maschile, come se la funzione professionale non potesse essere espressa altrimenti. Questo ha creato un’invisibilità sistematica del genere femminile (come anche delle persone non binarie) nel linguaggio quotidiano.

Eppure come dimostrano alcuni studi sull’influenza del linguaggio sul nostro modo di pensare (citati nella guida), il maschile universale non è neutro: esso viene inconsciamente interpretato come riferito agli uomini. Lo studio del 2019 condotto dalla Banca Mondiale, “Gendered languages may play a role in limiting women’s opportunities”, ha rilevato che nei Paesi dove prevale il maschile universale la presenza delle donne nel mercato del lavoro è significativamente inferiore. Questa constatazione dimostra che il linguaggio che usiamo quotidianamente non solo riflette, ma contribuisce a perpetuare l’esclusione delle donne in ambiti fondamentali della società.

In linea con queste ricerche, nel saggio “Le cerveau pense-t-il au masculin? (di Pascal Gygax, Sandrine Zufferey e Ute Gabriel) si sottolinea come l’uso del termine “uomini” per indicare genericamente “gli esseri umani” porti spesso a visualizzare mentalmente solo figure maschili. Il maschile generico, checché se ne dica, non viene percepito come inclusivo, ma come un modo per normare il maschile come standard universale, relegando il femminile e altre identità di genere a un ruolo secondario, quando non persino invisibile.

Disabilità, abilismo e retorica

Tra le aree esplorate nel documento, una delle più centrali è poi quella relativa alla disabilità. La definizione proposta fa riferimento a caratteristiche fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che, «in interazione con le barriere sociali e ambientali, ostacolano la piena partecipazione delle persone alla vita sociale». In altre parole, la disabilità non è vista come una condizione individuale, ma come il risultato di un contesto che non offre pari opportunità a tutti i suoi membri.

Nel corso della storia, la disabilità è stata spesso trattata secondo un modello medico, che tendeva a “correggere” la persona considerata deficitaria. Oggi, grazie al modello sociale della disabilità, introdotto dagli anni ’80, l’attenzione si sposta dalla persona alle strutture e agli atteggiamenti della società, che deve lavorare per abbattere gli ostacoli che limitano l’accesso e l’inclusione di tutti.

Le linee guida di Fondazione Diversity si inseriscono in questo quadro, offrendo uno strumento pratico e aggiornato per chi vuole evitare linguaggi paternalistici o pietistici nei confronti delle persone con disabilità, suggerendo, per esempio, di evitare termini come “diversamente abile”, che possono apparire paternalistici, preferendo espressioni come “persona con disabilità”, che pongono l’individuo al centro senza etichettarlo. Simili indicazioni riguardano anche altri ambiti, dall’etnia all’identità di genere, contribuendo a costruire una narrazione più consapevole, rispettosa e centrata sulle persone.

Anche la recente riforma sulla disabilità si è mossa verso un linguaggio più inclusivo. Parte infatti da una nuova definizione di «disabilità» il decreto legislativo 62/2024, da un lato per spazzare via termini ormai inadeguati (la legge 104/1992 parlava ancora di persona «handicappata»), dall’altro per cambiare il modello relativo alla disabilità: da quello sanitario a quello dei diritti umani. Anche per la normativa, dunque, lo sguardo va spostato dalla menomazione al supporto necessario per assicurare la partecipazione delle persone nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza.

Le sfide per un linguaggio più inclusivo

Le linee guida di Diversity Lab si presentano come un manuale pratico e teorico, suddiviso per temi e con un’efficace struttura tra nuove definizioni e vecchie abitudini. Nato dal confronto tra esperti e comunità sottorappresentate, è utile per indirizzare chi si occupa di comunicazione, giornalismo, istruzione e spettacolo verso una scelta più consapevole delle parole.

Soprattutto per chi fa comunicazione, ma anche per chi riveste responsabilità aziendali o educative, deve essere chiaro che il modo in cui parliamo non solo riflette il nostro pensiero, ma contribuisce a costruire il pensiero collettivo. Il linguaggio non è solo una questione accademica o politica, ma entra nella vita di tutti i giorni, influenzando le nostre interazioni quotidiane. Usare termini errati o non rappresentativi rafforza stereotipi dannosi e impedisce la creazione di una società veramente inclusiva, anzi, meglio, egualitaria.

Oltre alle questioni di genere e alla disabilità, il documento tocca diverse aree tematiche, tra cui etnia e identità LGBTQ+. Fornisce consigli pratici e glossari aggiornati per aiutare chiunque a scegliere le parole più corrette nel rispetto delle comunità di riferimento. Per esempio, espressioni come “di colore” sono ormai considerate superate, poiché legate a una visione biancocentrica del mondo. Al loro posto, è preferibile usare termini più diretti come “persone nere” o “persone razzializzate”.

Analogamente, per evitare negazioni, le linee guida raccomandano di preferire termini come “persona cieca” o “persona sorda” invece di “non vedente” o “non udente”, seguendo le richieste delle comunità stesse. D’altro canto, termini come “cara”, “tesoro” o “amore”, spesso usati liberamente verso le donne, anche in contesti non abbastanza informali da giustificarli, possono generare disagio, non solo perché sminuenti, ma anche perchè possono portare a discriminazioni, specialmente sul posto di lavoro, dove l’uso di tali termini è decisamente fuori luogo.

L’aspetto cruciale che non bisogna perdere di vista è che il linguaggio ha un impatto diretto anche sulle opportunità lavorative e sociali. Un linguaggio che tende a escludere o a sottovalutare determinate identità limita non solo la loro visibilità, ma anche la loro capacità di accedere a ruoli di potere e a opportunità lavorative. Adottare una comunicazione inclusiva, al contrario, non è solo un gesto simbolico, ma un atto concreto che può ampliare le prospettive e le possibilità per tutte le persone.

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