A che età è giusto dare in mano un cellulare a un ragazzo o una ragazza? Quando consentire l’accesso ai social? La corretta gestione della relazione tra tecnologia e nuove generazioni si fa sempre più urgente, anche alla luce dei frequenti allarmi legati alla salute mentale dei più giovani. Allarmi che si intrecciano con i dati sull’utilizzo dei social e delle nuove tecnologie, senza che tuttavia ci sia un filone univoco di studi che possa chiarire in maniera netta e significativa (dimostrando quale sia la causa e quale l’effetto) questo legame. Negli ultimi mesi, in Italia, il dibattito sul tema ha visto una petizione lanciata da alcuni psicologi raccogliere oltre 50mila firme. La richiesta: che sia vietato prima dei 14 anni avere uno smartphone personale, così come aprire, prima dei 16 anni, un proprio profilo sui social media. Si tratta, dice la petizione, di strumenti che possono essere «molto dannosi». Siamo alle prese con una generazione ansiosa e fragile, quindi, e quelle firme così numerose, in pochi giorni, ci dicono quale sia il livello di preoccupazione degli adulti sul tema. Ma vietare è la soluzione? E vietare cosa e quando?
L’età, un punto centrale
Facciamo una premessa importante: c’è senza alcuna ombra di dubbio un tema di età rispetto all’utilizzo degli smartphone e all’accesso ai social. Preoccupa – a ragion veduta – la diffusione sempre più ampia di dispositivi utilizzati come intrattenimento per bambini anche in età prescolare, a volte addirittura senza alcuna supervisione. In questo senso e in queste fasce di età le linee guida esistono e sono ampiamente condivise (nessuno schermo prima dei due anni, per esempio, dice l’OMS) ma man mano che l’età cresce i dubbi aumentano.
La soglia più comune di ingresso nel mondo degli smartphone è quella dell’arrivo alle scuole medie inferiori (quindi 10-12 anni), quando a una maggiore autonomia di movimento corrisponde l’emergere di maggiore esigenza di controllo da parte ddelle famiglie. Tuttavia, i dati mostrano che l’età di utilizzo degli smartphone è in costante diminuzione. Mi ha colpito, qualche tempo fa, l’intervista a un famoso tennista – che le cronache raccontavanoquale esempio di severità – che ha detto di aver vietato lo smartphone ai suoi figli, nonostante tutti i loro amici lo avessero. I figli, però, hanno 7 e 10 anni. Stabilire quando, dunque, diventa fondamentale, assunto il fatto che con gli smartphone (e tutto ciò che veicolano) conviviamo già da tempo.
Non è un problema degli adolescenti ma degli adulti
Niente smartphone fino ai 14 anni e niente social fino ai 16, quindi? Ne abbiamo parlato con Rosy Russo, formatrice e creatice di Parole O_stili, associazione no profit che ha l’obiettivo di responsabilizzare ed educare gli utenti della Rete a praticare forme di comunicazione non ostile. Russo, che è anche madre di quattro figli, conduce con l’associazione incontri e percorsi nelle scuole. Quello sui limiti e i divieti, a suo parere, «è un dibattito sacrosanto. Di recente – racconta – abbiamo collaborato con una campagna di un’associazione di pediatri per dire, in sostanza, che i cellulari per i bambini da 0 a 3 anni sono il veleno. Purtroppo, c’è ancora poca consapevolezza di questo da parte di molti genitori».
E proprio qui sta il punto, secondo lei: si tratta di un tema educativo importantissimo che non possiamo relegare solo ai ragazzi ma che deve coinvolgere i genitori e, più in generale, gli adulti. «La fatica – devo dirlo – deve essere dei genitori che devono accompagnare i figli e le figlie in un mondo per loro totalmente nuovo», quello digitale e dei social. E per farlo, va detto, sono mondi che devono conoscere loro stessi per primi. Tanti genitori, per esempio, pensano che avere la password degli smartphone dei propri figli non sia corretto, così come leggere le loro chat, per una questione di privacy. «Distinguiamo – dice con forza Russo – un conto è la chat di un diciottenne, un conto la chat di un ragazzino o una ragazzina di 12-13 anni che muove i primi passi nel mondo digitale e che vanno seguiti, in ognuno di questi passi!».
Un cammino da fare insieme
La chiave, quindi, è educare. «Ho l’impressione che la paura di educare – osserva Russo – si traduca nell’educazione attraverso la paura, quindi ecco il proibire e il vietare. Io penso che i più giovani vadano accompaganti, un passo alla volta. Magari prima con dei telefoni con funzionalità ridotte, prima solo nella chat di famiglia, poi pian piano aumentando la complessità e spiegando anche come funzionano i social, quali sono i potenziali rischi in Rete e via dicendo. Ma è un lavoro che va fatto insieme, gradualmente». Insomma, spostare in avanti l’età non risolve del tutto il problema, o si rischia di dare in mano una Ferrari a un neopatentato. Meglio sarebbe, dice Russo, fare la strada preparatoria insieme.
«Anche perché va detta una cosa importante – sottolinea Russo – a 11-12 ammi un genitore è ancora un punto di riferimento fondamentale e può essere una risorsa preziosa per chi accede alla Rete. A 14 anni, però, tu non sei più un punto di riferimento, perché il focus si sposta fuori, nella rete amicale. E allora potrebbe essere troppo tardi». Senza contare, che un adulto che passa la maggior parte del suo tempo sullo smartphone, che lo porta a tavola, che lo vive come una sua appendice – come è per la maggior parte degli adulti nel nostro Paese – non si trova in una posizione facile per imporre divieti perentori.
A scuola studiamo la cittadinanza digitale
Ma il peso, la responsabilità, non può e non deve essere solo sulle spalle della famiglia. Certo, resta un centro importante delle decisioni, dei limiti e dei confini necessari per accompagnare i propri figli nell’età dello smartphone, ma non può essere lasciata sola. In primis, perché questo riprodurrebbe quelle diseguaglianze sociali ed educative presenti già nella nostra realtà. «Vietare è un lusso che può permettersi soltanto chi è benestante e ha la possibilità di offrire tecnologie ai propri figli», scrive Luca Tremolada nel libro “La lezione è finita”. «Chi ha tempo da dedicare per leggere, informarsi e trovare suggerimenti su internet di solito è culturalmente ed economicamente fortunato. Perché ha già consapevolezza della sfida», dice l’autore.
Non tutte le famiglie hanno la possibilità di supportare allo stesso modo i figli, negli studi come nella conoscenza digitale. Che magari essi stessi non hanno. Il ruolo della scuola è fondamentale in questo senso: «Sarebbe bello introdurre in tutte le scuole di ordine e grado a partire dai 3 anni un’ora di cittadinanza digitale – dice Rosy Russo – come esistono storia e geografia, perché è assodato che le tecnologie non sono uno strumento, ma una cultura che noi abitiamo e che dobbiamo conoscere». Sulla piattaforma “Anche io insegno” di Parole O_stili ci sono centinaia di schede didattiche gratuite che propongono agli insegnanti attività per bambini sin dai 3 anni di età: si parte dall’ambiente, dalle emozioni e dalle relazioni, si inizia a lavorare sulla la cittadinanza digitale.
«Possiamo mettere regole, ridurre i tempi, stare attenti ed è tutto molto importante, ma dobbiamo imparare anche a vivere dentro questa cultura e insegnarlo ai nostri figli», dice. Per Russo, quindi, servono operazioni reali, concrete e massicce di educazione nelle scuole, con gli investimenti e la formazione adeguata, anche per gli insegnanti. «Ecco – conclude – noi di Parole O_stili continuiamo a essere positivi sulla Rete, ma perché siamo convinti che siamo noi che dobbiamo essere gli anticorpi ai rischi della Rete. Dipende da noi, PIù che vietara, partiamo col far conoscere ed educare a una cittadinanza digitale responsabile».
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