Perché il caso del consiglio di amministrazione di Cdp ci riguarda

Per chi si occupa di politica e di finanza il caso Cdp, scoppiato questa settimana, è cosa nota. Per tutti gli altri è corretto fare un passo indietro. Cassa depositi e prestiti è una società il cui azionista di maggioranza è il Ministero dell’Economia e delle Finanze con oltre l’80%. Questo vuol dire che gli organi societari vengono proposti dall’azionista di maggioranza (quindi il governo) e poi approvati dall’assemblea degli azionisti (e quindi dal Mef).

La questione Cdp

Cdp, come società a controllo pubblico, ricade sotto la legge Golfo-Mosca, ovvero la 120/2011, che ha introdotto in Italia le quote di genere: nella scelta dei membri del consiglio di amministrazione e del collegio sindacale un terzo dei posti (poi salito al rinnovo della legge al 40%) deve essere riservato al genere meno rappresentato, quindi in Italia alle donne. Cdp ha un consiglio di amministrazione di 9 membri, di cui 4 sono donne.

Si è giunti ora al rinnovo del consiglio e, secondo indiscrezioni di stampa, sembra ci sia difficoltà a trovare donne da candidare al board oppure che la lista dei candidati sia a prevalenza maschile. Per ottemperare, quindi all’obbligo delle quote di genere, il governo, sempre secondo le notizie di stampa, avrebbe pensato di cambiare lo statuto della società facendo in modo che nel computo rientrassero anche i 5 membri aggiuntivi della gestione separata. Il conto quindi sarebbe: 2 donne nel cda da 9 membri (22%) + 3 donne della gestione separata su 5 (60%). Un’altra ipotesi, invece, indica la volontà di far salire il board da 9 a 11 membri, in modo così da allargare il numero di posti disponibili.

Gli effetti delle donne nei cda

In molti penseranno che sia una questione di lana caprina e che si sta a discutere della sorte di poche persone che siederanno o meno in quel consiglio. In verità, invece, la posta in gioco è ben più alta.L’Italia è stata uno dei Paesi europei che fra i primi ha approvato la legge sulle quote di genere e grazie al fatto di essere partita per prima rappresenta da anni un’eccellenza in europa, perché nelle società quotate, ad esempio, si è superato il 40% di presenza femminile nei board. Altri Paesi, come Francia, Germani e Gran Bretagna, sono arrivate solo in un secondo momento a introdurre correttivi per avere organi societari più diversificati.

La forzatura delle quote era necessaria per correggere una distorsione secondo la quale nei consigli si reclutavano solo persone simili per sesso, estrazione, formazione e circoli di frequentazione. E vedremo fra poco come lìingresso delle donne ha cambiato anche queste caratteristiche.L’introduzione delle quote aveva l’obiettivo di cambiare la cultura del Paese. Far sedere le donne nei board vuole dire portare nelle stanze del potere e delle decisioni punti di vista, voci e istanze diverse. E allo stesso tempo si voleva creare dei role model per le giovani, che sono ormai la maggior parte dei laureati italiani e con voti più alti.

Inserire donne nelle stanze dei bottoni voleva anche dire riuscire in qualche modo a incidere nelle organizzazioni, portando modelli di sviluppo diversi e un’organizzazione del lavoro che non fosse disegnato solo sui ritmi di vita maschili.

L’auspicio, infatti, è sempre stato quello che le donne giunte in certe posizioni potessero poi operare per favorire quel cambiamento culturale che permettesse al Paese di fare un passo avanti, non solo a livello sociale ma anche economico. In Italia, infatti, lavora ancora una donna su due, il che ha ricadute pesanti sulla crescita economica del Paese e sulla spesa pubblica. Si prendano ad esempio le famiglie monoreddito: sono più esposte al rischio povertà e richiederano più frequentemente un intervento di sostegno pubblico. Allo stesso modo le disoccupate di oggi saranno le pensionate in difficoltà economica domani, di cui lo Stato dovrà farsi carico.

Perché ci riguarda

Cosa c’entra quindi Cdp con le pensionate povere di domani? Il cambio di statuto di Cdp per poter aggirare gli obblighi di legge sulle quote di genere creerebbe un precedente importante, che altre società pubbliche o quotate potrebbero decidere di percorrere per evitare l’elezione di donne nei board. Meno donne nei cda equivale a meno voci femminili nelle aziende, meno cambiamento culturale, meno porte aperte per le giovani che si affacciano nel mondo del lavoro e quindi meno crescita per il Paese tutto. Perché più donne nel mondo del lavoro equivale a più punti di Pil, se vogliamo farne semplicemente una questione economica. Banca d’Italia, qualche anno fa, aveva stimato che se l’occupazione femminile nel nostro Paese raggiungesse i livelli di quella maschile guadagneremmo 7 punti di Pil. Perché le donne che lavorano creano a loro volta richiesta di servizi (badanti, baby-sitter, educatrici nei nidi, etc) perché non potrebbero più assolvere ai lavori di cura di cui si occupano. Quindi si innescherebbe un circuito positivo per l’occupazione italiana.

Perché le quote fanno il bene delle aziende

Se poi vogliamo essere cinici e guardare solo al tornaconto delle aziende, le quote di genere sono assolutamente un fattore positivo e lo hanno dimostrato diversi studi. McKinsey, nel report annuale ‘Diversity Matters Even More’, condotto su una platea di oltre 1200 aziende disseminate in 23 Paesi, sottolinea come le aziende con una rappresentanza di donne superiore al 30% a livello di top management possono centrare rendimenti finanziari più alti rispetto a quelle in cui è ancora presente un forte gender gap. Le aziende con maggiore diversità di genere nei board hanno il 27% di probabilità in più di produrre una performance migliore rispetto ai competitor, mentre la percentuale è del 13% per la diversità etnica nei cda. Non solo. L’80% delle aziende che ha performance di Borsa migliori ha almeno una donna fra gli executive.

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