«Il dibattito sul patriarcato comincia in casa», Gino Cecchettin alla Sapienza

«Il dibattito sul patriarcato è iniziato a casa, con le mie figlie. Ho sentito da Elena per la prima volta parlare di catcalling e patriarcato. Noi uomini abbiamo sempre rincorso l’ideale di maschio alfa e invece dobbiamo avvicinarci al mondo femminile e a nuovi modelli. Le mie figlie, Elena e Giulia, hanno fatto nascere un uomo nuovo»: Gino Cecchettin, il papà di Giulia Cecchettin, si rivolge così agli studenti e alle studentesse della Sapienza, sottolineando in modo chiaro quello che c’è da fare per contrastare il fenomeno della violenza maschile contro le donne.

In occasione della presentazione del libro “Cara Giulia” (Rizzoli), dedicato alla figlia 22enne uccisa dall’ex fidanzato Filippo Turetta, Cecchettin assume una posizione precisa sul ruolo della responsabilità maschile: occorre non sottovalutare le consuetudini consolidate in casa – «la costruzione del maschile si basa su stereotipi che da un lato esaltano l’uomo e dall’altro sminuiscono la donna. Non me ne sono mai accorto, fino a che mi sono sposato e ho dato per scontato che i lavori di casa li facesse mia moglie», racconta Cecchettin – e rendersi conto dei propri privilegi perché «sia possibile evidenziare le disparità e guardare non solo la punta dell’iceberg della violenza, ma tutto quello che c’è sotto».

“In voi rivedo Giulia”

La presentazione del libro “Cara Giulia”, lo scorso 9 maggio, non avviene in un luogo casuale ma nel dipartimento di ingegneria informatica automatica e gestionale “A. Ruberti” della Sapienza che, come ha sottolineato la rettrice Antonella Polimeni con un videomessaggio, «è un ateneo che vuole costruire una nuova comunità nel rispetto della persona».

«Mi emoziona essere davanti agli studenti perché Giulia è morta da studentessa e in voi rivedo lei» dice Cecchettin rivolgendosi a una platea piena di ragazzi e ragazze. Le parole, come i luoghi, hanno un significato: «il nostro dipartimento ha una forte componente maschile, intorno al 90% – spiega la prof.ssa Tiziana Catarci, direttrice del dipartimento –  anche nella nostra comunità studentesca le ragazze sono troppo poche». Invertire la rotta è necessario, aggiunge Catarci, perché «le discipline che qui si studiano sono quelle che aiutano a costruire il mondo di domani.

Sono solo gli uomini, perlopiù uomini bianchi, che costruiscono il nostro futuro. Ma un futuro senza diversità e senza ricchezza di contributi rischia di alimentare stereotipi, pregiudizi e violenze. Questo è uno dei motivi per cui cerchiamo di realizzare diverse iniziative per attrarre più ragazze». Per scoprire la punta dell’iceberg della violenza, serve anche questo: «la violenza comincia dagli stereotipi, compreso quello di pensare che le donne non siano adatte allo studio dell’ingegneria» dice Catarci. E Giulia Cecchettin ne era un esempio: all’università di Padova studiava per diventare un’ingegnera biomedica e, la laurea che l’ateneo le ha conferito in sua memoria, tiene saldo il suo obiettivo.

Femminicidio: un fenomeno, “non un’emergenza”

La scelta di dedicare un libro alla figlia Giulia, spiega Gino Cecchettin, nasce dall’esigenza di «creare qualcosa dal dramma»: ovvero spiegare, attraverso il potere delle storie personali, che quello del femminicidio non è un caso emergenziale o episodico. Ma un fenomeno strutturale che ha radici culturali profonde. «Il femminicidio è un fenomeno trasversale. Se non si inquadra il problema in modo corretto a livello legislativo sarà difficile contrastarlo” spiega la prof.ssa Flaminia Saccà, capofila del progetto Step e presidente dell’omonimo osservatorio focalizzato sul tema della violenza sulle donne.

«Chi ha messo subito a fuoco il problema è stata Elena Cecchettin che ha subito detto che a uccidere non è stato un mostro, ma il vostro bravo ragazzo. Una sintesi lucida e perfetta del fenomeno» afferma Saccà. Distinguere l’origine culturale del femminicidio serve anche per riconoscere le distorsioni nella sua narrazione: «il termine himpathy indica il flusso di empatia, che viene rimosso dalle donne vittime di violenza e indirizzato invece verso i loro uomini maltrattanti. Questo emerge anche nelle sentenze dei tribunali in cui si va a ricercare la responsabilità della donna» aggiunge Saccà, citando l’analisi condotta nell’ambito del progetto Step.

L’esigenza di intercettare gli stereotipi che sottendono alla violenza emerge dalla scrittura del libro che Gino Cecchettin ha curato insieme allo scrittore Marco Franzoso. «Il lavoro che secondo me va fatto è quello di lavorare sulla parte invisibile dell’iceberg che sostiene la violenza: le consuetudini, i gesti quotidiani, le battutine che facciamo ogni giorno, un certo utilizzo del linguaggio» – afferma Franzoso, che aggiunge: «Questo libro è un tentativo di rendere visibile l’invisibile attraverso la narrazione empatica. Scriverlo insieme a Gino Cecchettin è stato come imparare a indossare degli occhiali nuovi: dobbiamo cambiare occhiali e riuscire a vedere non solo quello che è evidente ma soprattutto quello che non è direttamente visibile».

E le nuove generazioni possono farlo per prime: «vedo nel pubblico una consistente presenza maschile – sottolinea la prof.ssa Mariella Nocenzi, socia fondatrice dell’osservatorio di genere, parità e pari opportunità – è un dato incoraggiante che ci fa ben sperare nel cambiamento concreto».

Perché la violenza contro le donne ci riguarda

Giulia Cecchettin era una ragazza, una studentessa, una figlia, una sorella, un’amica. Ogni caso di femminicidio ha un volto e una storia: «Giulia era l’esempio della spensieratezza, della bellezza d’animo e della serenità. Era davvero così, oltre quello che emerge dagli spezzoni dei tg» racconta il padre, che continua: «Mia figlia era una ragazza simpaticissima che metteva allegria, capace di entrare in cucina vestita da clown o con pigiami assurdi a ritmo di techno. Ma era anche quella che ti redarguiva se usavi parole inadatte o espressioni fuori luogo. Ho imparato da lei, ad esempio, il concetto di body shaming. L’errore di mettere al centro del discorso il corpo altrui e farne oggetto di giudizio. Segno che lei era un po’ più avanti rispetto al mio modo di vedere la realtà».

Il caso Cecchettin ha smosso la reazione mediatica più di altri casi perché racconta di una vita normale vicina a quelle di tante ragazze. E, proprio la “normalità”, svela la capillarità della violenza: può attecchire ovunque perché ha a che fare con dinamiche di potere e possesso che sono strutturali. Per questo, ci tiene a sottolineare Gino Cecchettin, «la violenza va condannata sempre. Quella verso una persona brava e gentile, come mia figlia era, non è più importante rispetto alla violenza verso altri». È quello che muove l’obiettivo del libro ed è quello che ha fatto Elena Cecchettin quando, al termine di una fiaccolata dedicata alla sorella uccisa, ha preso parola trasformando un dolore privato in una questione politica. Svincolandosi dal ruolo della vittima, Elena Cecchettin ha invertito la narrazione, facendo sentire la sua voce, parlando di cultura patriarcale, di responsabilità collettiva e individuale, di possibili soluzioni a breve e a lungo termine.

“Aggiungere valore” per contrastare costruire un mondo nuovo

Cosa fare oggi per portare avanti questo obiettivo? Ascoltare– «ho ringraziato Gino per l’ascolto che ha stimolato rispetto agli altri. La cultura si cambia partendo dall’ascolto» sottolinea la prof.ssa Giovanna Gianturco, direttrice del corso culture contro la violenza di genere – e andare avanti insieme, uomini e donne, per decostruire gli stereotipi di cui la violenza si nutre. «Giulia aggiungeva sempre valore e lo faceva in modo naturale – ricorda Cecchettin –  Prendo esempio da lei: cerco sempre di aggiungere valore. E dovremmo farlo tutti: pensiamo cosa posso dire? Cosa posso fare per raggiungere quel quid in più per innalzare il valore della nostra società?». A questa domanda risponderà anche la Fondazione Giulia (che sarà finanziata con i proventi del libro), voluta da Cecchettin proprio per portare avanti «un impegno incrollabile contro la violenza di genere».

«Solo poco tempo fa ho capito il valore del tempo di qualità – conclude Cecchettin – Viviamo con il pilota automatico. Non ricordo i dettagli dell’ultimo sabato trascorso con mia figlia. Il vero tempo di qualità è quello in cui con figli e amici si parla, si dibatte, ci si confronta su cose importanti generando una sensazione di valore. È l’insegnamento che Giulia mi ha lasciato ed è questo che proverò a fare».

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