È stata ribattezzata “me economy”, ovvero l’economia dell’individuo. Una nuova modalità di vivere il lavoro in cui è il singolo a dettare le proprie regole. Regole fatte di equilibri tra lavoro e vita personale, di flessibilità e autonomia, ma soprattutto di ascolto. Una tendenza fotografata da ManpowerGroup nella ricerca globale “The Age of Adaptability” e che si caratterizza per una forte connotazione di genere: l’85% delle lavoratrici intervistate vuole poter scegliere la modalità di organizzazione del lavoro che più si adatta alle proprie esigenze.
Flessibilità, personalizzazione della carriera, maggiore allineamento tra lavoro e priorità personali, ma anche miglioramento delle politiche di inclusione sul posto di lavoro: sono le principali richieste delle donne, con appena il 7% disponibile a un’occupazione a tempo pieno che escluda il remote working.
«Le donne sono tra le portabandiera della “me economy” e questo dimostra il desiderio di essere protagoniste nel mondo del lavoro, mentre allo stesso tempo ricercano un equilibrio con la vita privata, senza dover rinunciare a una delle due parti. Alle aziende richiedono flessibilità e libertà di scelta, oltre alla disponibilità di accogliere e valorizzare questa rinnovata importanza che viene data alla qualità della vita» – spiega Anna Gionfriddo, amministratrice delegata di ManpowerGroup. E aggiunge: «Pensare che la strada per favorire l’occupazione femminile passi primariamente dal lavoro da remoto è ormai uno stereotipo da superare. L’obiettivo, anzi, è superare dinamiche a doppio binario, con uomini in ufficio e donne al lavoro da casa, lontane da opportunità di networking e incarichi di rilievo».
Oltre la Shecession
Del resto, i livelli di occupazione femminile sono tornati a quelli pre-Covid, con un’inversione di rotta rispetto alla “Shecession” che comportò in periodo pandemico l’abbandono dell’ambiente lavorativo per milioni di donne. Oggi, il tasso di occupazione femminile in Italia si attesta al 53,4% ( contro il 70,8% per gli uomini, secondo i dati Istat di marzo 2024), un dato comunque alto se si guarda la serie storica italiana ma ancora troppo lontano dalla media degli altri Paesi europei (67%). Stesso trend anche per i ruoli di leadership: le donne nei cda sono intorno al 43%, ma tra loro solo il 2-3% sono amministratrici delegate.
Il cammino per colmare il gender gap è ancora lungo, ma le aziende sembrano volersi impegnare per riuscirci. Secondo i dati di MEOS – ManpowerGroup Employment Outlook Survey, il 31% delle imprese punta alla piena parità di genere entro due anni, consapevoli anche del fatto che le aziende con alti livelli di diversity possono performare meglio rispetto a quelle con scarsi livelli di diversity, equity, inclusion, e belonging.
«Ci sono ancora molte opportunità per favorire la presenza femminile nel mercato del lavoro. In particolare, sebbene le donne costituiscano la metà della popolazione attiva mondiale, detengono meno di un terzo delle posizioni dirigenziali. Inoltre, nonostante la carenza di talenti tecnologici, le donne rappresentano meno di un terzo della workforce mondiale nei settori legati alla tecnologia. Dunque, è urgente garantire che le donne siano maggiormente rappresentate sia nei bacini di candidati per i posti di lavoro in crescita sia nelle posizioni di vertice delle aziende» sottolinea Gionfriddo.
Adottare un approccio da “me economy” potrebbe accelerare il percorso della parità di genere. Nella “me Economy”, infatti, le persone richiedono ascolto ed è proprio attraverso l’ascolto che anche gli stereotipi più radicati potrebbero essere arginati. «L’occupazione da remoto – fa notare Gionfriddo – può favorire una migliore conciliazione dei tempi di lavoro e di vita ma, talvolta, questa scelta sottende la carenza di soluzioni che supportino il lavoro domestico, la cura e l’assistenza di parenti anziani e la genitorialità. Nei molti casi in cui sono le donne a occuparsi di questi aspetti, ne consegue una limitazione nelle relazioni, in particolare con i manager, nell’apprendimento, nella collaborazione, fino a minori opportunità di carriera. In questo senso, il dato relativo alla richiesta di “me economy” è la cartina tornasole di quanto le lavoratrici siano a conoscenza dell’importanza delle relazioni sul luogo di lavoro e non siano più disposte a farne a meno».
Il contributo della GenZ alla “me economy”
In tutto questo, spicca l’elemento di generazionale: per quanto la “me economy” sia trasversale tutte le età, la nuova tendenza è fortemente influenzata dalla GenZ che pone la salute mentale in primo piano e mette sotto i riflettori i leader. Il 93% del capitale umano a livello globale, infatti, afferma di essere stato influenzato dai colleghi ventenni per quanto riguarda vari aspetti del luogo di lavoro: dalla paga equa al coinvolgimento dei datori di lavoro nelle questioni sociali fino ai confini tra lavoro e vita privata. Tra i vantaggi più desiderati nella me economy, infatti, spiccano: una settimana lavorativa di quattro giorni (64%), la possibilità di scegliere l’orario di inizio e fine lavoro (45%) e la flessibilità di lavorare da casa se necessario (35%).
«Queste richieste stanno plasmando un nuovo modello lavorativo in cui al centro ci sono i bisogni individuali. Per questo, serve una leadership in azione, focalizzata sull’obiettivo e in un certo senso disruptive, capace di vedere al di là di quelli che sono i paradigmi che fino a oggi hanno costruito il mondo del lavoro. Dobbiamo intervenire oggi per cambiare il mondo del lavoro di domani» – conclude Gionfriddo.
E proprio sulla settimana di lavoro di 4 giorni è iniziato in Commissione Lavoro della Camera l’avvio dell’esame delle proposte di legge delle opposizioni. Anche a livello politico la questione non può essere più ignorata.
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