Siamo stanchi, e non perché è primavera

Ricordo che a scuola durante il mese d’aprile avevo puntualmente un calo nel rendimento. I miei voti si abbassavano fino a uno o due punti. “È la primavera” mi diceva la mia professoressa di italiano e latino poco convinta. Non so cosa fosse, so solo che mi sentivo più stanca e rallentata.

Ancora oggi, mi capita, alle porte del mese, di ricordarmi di quella sensazione e mi chiedo se tornerà ad accompagnarmi. La mia agenda da qualche anno a questa parte è particolarmente congestionata e mi ritrovo a temere un po’ l’avvicinarsi di questo periodo, nella paura che possa capitolare. D’altronde i vecchi adagi hanno sempre un fondo di verità. E “aprile dolce dormire” non fa eccezione.

Attualmente le persone sembrano però sperimentare stanchezza a prescindere dalle stagioni. Ai “come stai?” ricevo spesso risposte come “un po’ stanca”, “in affanno”, “sono stravolto”, “prossima domanda?”. C’è chi candidamente afferma di voler “andare in letargo” e chi anela al weekend per poter “finalmente dormire”.

La parola ai numeri

La stanchezza che ci portiamo appresso è testimoniata da studi e ricerche. I dati 2023 dell’Osservatorio BVA Doxa-Mindwork sul benessere psicologico nelle aziende italiane, ad esempio, ci dicono che una persona su due soffre di ansia e insonnia legate al lavoro.
Una ricerca di Deloitte a livello globale, evidenzia che il 36% della GenZ e il 30% dei Millennial si sentono “esausti” la maggior parte del tempo.
Non solo: la sensazione di sfinimento che sembra essere così comune, è uno dei sintomi del burnout. Questo non significa che chi è stanco è in burnout, ma comunque è un aspetto da tenere in considerazione.
Una revisione della letteratura degli ultimi anni ci offre una fotografia interessante: a livello mondo, il 20% circa delle persone adulte avverte un affaticamento generale di durata inferiore ai 6 mesi, cronico nel 10% dei casi. Addirittura, sembra che la stanchezza non giustificata da condizioni mediche sia 2,7 volte più alta di quella riconducibile a patologie che la determinano.

Stanchezza fisica VS mentale

La domanda da porsi, al di là dei dati, non è “quanto si è stanchi?”, piuttosto: “che tipologia di stanchezza si sperimenta?”
C’è una profonda differenza tra fatica fisica e fatica mentale.
Oggi, in un mondo che funziona sempre di più attraverso quelle che potremmo definire “prestazioni mentali” – e sempre meno attraverso quelle fisiche – è essenziale saper discernere la tipologia di stanchezza. A partire da sé.

Il sonno è riparatore in entrambi i casi, ma al di là di una lunga dormita, ci sono rimedi alla fatica che possono essere agiti nel quotidiano. E che si differenziano rispetto alle cause che la determinano.
Quando si corre si rallenta se il fiatone e lo sforzo diventano eccessivi. Magari fino a camminare o fermarsi. Solo raramente avviene lo stesso quando la stanchezza è mentale, in mezzo a una giornata di lavoro piena. In questi casi, il più delle volte si continua. Portando la propria energia psichica al limite. Stirandola all’eccesso, finché si rischia di non avere più spazio mentale, di faticare a mettere in fila i pensieri, di sentirsi confusi, poco attenti, se non assenti.

La necessità di momenti di recupero collettivi

Siamo stanchi perché l’attività intellettiva che oggi ci è richiesta è di gran lunga maggiore rispetto al passato. Sia a lavoro che fuori. Basti pensare al digitale e alla costante connessione. Eppure, non abbiamo codificato momenti di recupero collettivi, socialmente accordati. Andiamo avanti come se non servissero.
Se ieri tornati dai campi si faceva la siesta – o, per dirla con gergo contadino nostrano, la merenda sinoira – oggi, cosa stiamo facendo quando “torniamo” dagli schermi? Perché torniamo dagli schermi, vero?

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  • Maria letizia |

    Sono unapersona dinamiche e solare e puntuale e sorridente. Mio figlio Cristian deve tornare a casa dalla sua famiglia

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