Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito oltre 100 scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla. #unite #rompiamoilsilenzio
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“Stai dritta, stai dritta, sei sempre curva, sempre più curva”. “Apri quelle spalle, sembri gobba”. “Brava, stai dritta così, hai visto quanto sembreresti più alta? Sembri pure più bassa, perché vuoi apparire più bassa? Con queste spalle sempre curve!”.
13 anni. Lo dicevano per il tuo bene, certo, ma a me raccontavi quanto ti facessero male tutti quei continui rimbrotti di madre, padre, zii, cugini, compagni di scuola. Solo io, che ero la tua zia giovane, la tua unica confidente, non te lo dicevo mai. Avevi un problema di cifosi piuttosto grave, e così il medico sentenziò che la colpa non era tua. Che c’era un problema fisiologico, oltre che posturale. Finalmente, pensasti, finalmente libera da quella “colpa originaria” che ti faceva stare male alla fine della scuola media, all’inizio del periodo dei ‘fidanzamenti’, dei ‘fidanzatini’, delle feste rock al suono delle canzoni dei Duran Duran e degli Spandau Ballet che finivano con balli lenti e melodie del “Tempo delle mele”.
E allora si cominciò. Dovevi fare ginnastica posturale, ti mandarono, lo ricordo bene, nel migliore della zona, nella città vicina, dovevi prendere pure l’autobus da sola per andare lì, perché lì c’erano le attrezzature migliori, e soprattutto i medici e i terapisti migliori.
All’inizio andavi contenta, ti faceva bene, erano esercizi difficili, ma necessari per le tue spalle che si caricavano un po’ dei problemi di tutti, di zia Concetta, della cugina malata, dei problemi di lavoro di tuo padre, quasi sempre in cassa integrazione, dell’esaurimento a giorni alterni di tua madre.
Forse, azzardavo io, erano i problemi degli altri ad accentuare il tuo problema fisico. A costituire un peso immaginario sulla tua schiena già sofferente. Dopo qualche giorno, però, dopo tre-quattro sedute credo, non mi parlasti più di quella ginnastica benefica. Non ci volevi proprio andare dal fisioterapista. Un giorno avevi il mal di pancia, un altro troppi compiti arretrati. Arrivasti un giorno a pregarmi di inventare una festa di compleanno a sorpresa per la nonna, a cui, ovviamente, non saresti potuta mancare. Non capivo, che succede Elenina? Perché? sono troppo difficili gli esercizi? Ti fa troppo male la schiena facendoli? Tu giravi lo sguardo, sfuggente. Quando facevi così sapevo che non ti avrei estorto una parola di più.
Io sapevo anche delle difficoltà dei tuoi a raccogliere i soldi per queste sedute, per poter andare dal migliore fisioterapista della zona. Sapevo delle serate che tua mamma passava a cucire vestiti per le vicine, anche per mia madre e per le sue amiche che avevano sempre qualche tailleur da far aggiustare. Noi eravamo più benestanti, mio padre aveva fatto fortuna in Germania, e in qualche modo vi aiutavamo. Oggi sei tu più ricca di tutti noi. Dopo un po’, credevo per le difficoltà economiche aggravatesi dopo la chiusura definitiva dello stabilimento in cui tuo padre lavorava, non andasti più. Quando hai cominciato a guadagnare, bene, come biologa affermata, un paio di decenni dopo, hai risolto il problema, con una importante operazione chirurgica. “Risolto alla base, zietta”, mi scrivesti allora via mail, con grande orgoglio e soddisfazione. Anche questa volta avevi fatto tutto da sola, senza pesare sugli altri.
Sono passati anni, anche dall’operazione. Noi siamo cambiate, ci siamo perse, il mondo è cambiato, eppure è sempre uguale per certi aspetti. Ci siamo ritrovate, nella città dove io vivo, in occasione di un convegno nazionale di cui tu eri una delle relatrici. Io ho scelto di venire ad ascoltarti, ammirata e orgogliosa dei tuoi successi, e con una gran voglia di ritrovarti. Abbiamo riallacciato il nostro dialogo, negli ultimi anni un po’ sfilacciato, in una città che non è la nostra. Nascoste in un caffè milanese di quelli con il profumo dei cornetti appena sfornati e il mobilio retrò di colore verde e marrone. Con qualche capello bianco, qualche borsa firmata in più, un sorriso un po’ più opaco. Ma eravamo sempre noi, c’era sempre tra noi un legame di sangue e di affinità elettive. Non pensavo che davanti a un cappuccio fumante, sbirciando la foto di Giulia Cecchettin, uccisa dal suo ex fidanzato, campeggiare nella prima pagina di un quotidiano nazioanle, tu, dopo una smorfia di biasimo e schifo per l’ennesimo femminicidio, avresti raccontato. Cominciasti così senza preavviso, ma io ho capito subito a cosa e a chi ti riferissi.
“Lui mi toccava, con la scusa di farmi tenere le spalle dritte. ‘Stai dritta, mi diceva, stai dritta, sei sempre tutta storta’. Mi faceva mettere su un lettino, fingeva di controllare la mia schiena, i miei addominali, ma poi mi sfiorava il seno, mi accarezzava le cosce. Sollevava la maglietta per controllare meglio non so quale muscolo e mi toccava sulla pelle nuda. Io non capivo all’inizio. Non sapevo neanche cosa fosse normale e cosa no. Cosa fosse lecito e cosa no. Cosa avrei dovuto accettare perché mi faceva bene e a cosa invece avrei potuto dire no. Quando non venivo alle sedute si arrabbiava, mi minacciava, telefonava a mio padre o a mia madre, esigeva di essere pagato lo stesso. E mio padre si arrabbiava con me. “Noi facciamo tanti sacrifici per te, per la tua salute, e tu come ci ripaghi”, gridava mio padre se scopriva che non ero andata dal fisioterapista. Mi obbligavano ad andare. Poi una volta lui ha afferrato la mia mano e se l’è portata lì, per qualche istante. Io non sapevo nulla, ero una ragazzina davvero ignara dei problemi degli adulti, di amore, di sesso, di confini da non attraversare: tu lo sai com’ero, ero molto ‘ bambina’. Poi di quelle cose non si parlava mai a quel tempo, non c’era un nome per quelle cose che erano considerate tacitamente molto normali. Ma l’istinto mi ha guidato, mi ha portato a capire. È stato solo allora che ho realizzato con certezza che non c’era niente di normale. E non sapevo come uscirne, non sapevo con chi parlarne, anzi no, ero sicura non potessi dirlo a nessuno. Neanche a te. Chi mi avrebbe creduta? Chi non mi avrebbe colpevolizzata, magari perché portavo la minigonna o i body aderenti che si usavano allora? L’unica cosa che mi veniva istintivo fare era saltare le sedute, posticiparle il più possibile”.
“Poi un giorno ha toccato il culmine. Voleva fare una seduta di gruppo, alimentando le sue fantasie perverse, mi viene oggi da pensare. Lei, una sedicenne molto donna che sembrava avere trent’anni, aveva la seduta prima di me, ma lui mi disse che lei, al contrario di me, era molto brava, molto ‘avanti’ nel suo percorso, che avrei dovuto imparare da lei come fare gli esercizi. Così mi invitò ad assistere, mentre la massaggiava, le toccava il seno, le sfiorava l’inguine, si portava la sua mano vicina a lui. E lì ho avuto la controprova, non ero io che lo avevo provocato, lo faceva con tutte, le ‘addestrava’, facendo imitare le ‘più brave’ a quelle meno propense. E ho capito pure che non era colpa mia. Ho avuto pena per me, che mi ero caricata anche di questa colpa. Allora ho detto perentoria ai miei genitori che non servivano a niente quelle sedute, era una perdita di tempo e soprattutto di soldi, che noi non ne avevamo da buttare. Mia madre, chissà, perché, forse il sesto senso delle madri, non si oppose. Parlò a mio padre e anche lui acconsentì alla mia decisione di interrompere le sedute. Mi credettero. Non ebbi bisogno di aggiungere nulla e neanche di raccontarti nulla, tutto era risolto. Io avevo solo 13 anni. E non sapevo cosa fare. Io ero solo una bambina e lui mi faceva schifo e ribrezzo. Schifo e ribrezzo, come oggi, 30 anni dopo. E oggi, dopo l’operazione e tante sedute con fisioterapiste solo donne, 30 anni dopo, sto dritta, ho una postura perfetta, perfino innaturale.
Nessuno potrebbe osare dirmi più: ‘Stai dritta’”.
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Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.
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