L’emancipazione economica delle donne ha molti effetti positivi sullo sviluppo dei Paesi: stimola la produttività, fa crescere l’uguaglianza dei redditi e aumenta la diversificazione economica che, a sua volta, sostiene la resilienza economica, dice il Fondo Monetario Internazionale. Insomma, più donne lavorano, più le economie crescono.
Una maggiore partecipazione femminile al mondo del lavoro retribuito non è solo più giusto, ma sarebbe anche economicamente vantaggioso. Più precisamente, stima l’Ocse, se il contributo economico delle donne fosse uguale a quello degli uomini, nel 2025 il Pil annuo ammonterebbe a 28 trilioni di dollari, il 26% in più, rispetto a se lo scenario attuale rimanesse immutato. E questo potenziale economico è più alto nei paesi in via di sviluppo.
Anche il Fondo Monetario Internazionale di recente si è pronunciato sull’impatto del lavoro femminile sui Paesi a basso reddito, mostrando come le economie emergenti e in via di sviluppo potrebbero incrementare il loro prodotto interno lordo di circa l’8% nei prossimi anni aumentando il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro di 5,9 punti percentuali.
In uno scenario globale in cui la crescita è stimata in appena il 3% nei prossimi 5 anni, l’apporto femminile potrebbe fare la differenza, fa sapere l’istituto guidato da Kristalina Georgieva. Eppure, il lavoro e il talento delle donne vengono lasciati ai margini. Rispetto al 72% degli uomini, solo il 47% delle donne è attivo nel mercato del lavoro odierno (una soglia che era arrivata al 48% prima della pandemia da Covid-19), e il divario medio globale è diminuito solo di 1 punto percentuale all’anno negli ultimi 3 decenni.
Le cause sono da cercarsi tra le pieghe di leggi inique, disparità di accesso ai servizi, atteggiamenti discriminatori e altre barriere che impediscono alle donne di realizzare il loro pieno potenziale economico. Il risultato, scrive l’Fmi, “è uno scioccante spreco di talento, con conseguenti perdite in termini di crescita potenziale.”
Un continente di imprenditrici
In Africa le donne rappresentano più della metà della popolazione combinata, ma generano solo un terzo del Pil collettivo del continente poiché spesso il loro contributo all’economia è invisibile.
Qui risiede la più alta percentuale di donne imprenditrici al mondo secondo la Banca africana di sviluppo e il 25,9% delle donne è in procinto di avviare o gestire un’impresa nell’Africa subsahariana. Tuttavia le aspettative sociali relative al lavoro di cura non retribuito restano alte. In Africa, stima l’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), le donne dedicano 3,4 ore in più al lavoro di cura non retribuito rispetto agli uomini . Questi compiti, visti come una responsabilità femminile, riguardano la cura dei bambini e le faccende domestiche e nella maggior parte dei casi non sono formalmente conteggiati come produzione economica, né vengono remunerati. Una quantità di tempo, impegno e abilità che donne e ragazze dedicano all’economia e che restano invisibili.
La stessa Ilo ha inoltre stilato l’identikit più comune del caregiver non retribuito: si tratta di una donna, di età compresa tra i 15 e i 54 anni, con poche risorse economiche, diversi figli, un basso livello di istruzione e che lavora per lo più nell’economia informale.
Anche per l’Africa – dove, al ritmo attuale, la parità potrebbe essere raggiunta solo tra 142 anni – è stato calcolato il possibile apporto economico della parità di genere. Secondo la società di consulenza manageriale McKinsey, maggiore uguaglianza contribuirebbe a 316 miliardi di dollari di Pil collettivo (+10%) entro il 2025. Mentre, in caso di piena parità, l’economia crescerebbe di un trilione di dollari, pari al 34% del Pil.
Parità, solo sulla carta
Spostando lo sguardo a oriente, tutti i 10 Stati membri dell’Asean garantiscono l’uguaglianza tra donne e uomini nelle loro costituzioni. Tuttavia la discriminazione persiste tra stereotipi di genere e pratiche sociali.
Anche in Asia, riporta Un Women, le donne lavorano in condizioni più vulnerabili rispetto agli uomini. Sebbene costituiscano il 45% della forza lavoro del sud-est asiatico, sono in gran parte concentrate in lavori poco qualificati e poco retribuiti con condizioni occupazionali insicure. Le donne guadagnano costantemente meno degli uomini negli stessi settori, con un divario retributivo che in media raggiunge il 25%, secondo il Global Gender Gap Report 2022 del World Economic Forum.
Di nuovo, le donne svolgono più lavoro non retribuito degli uomini, sia in ambito domestico sia nelle imprese familiari e questo impegno non viene contabilizzato nel reddito nazionale, pur apportando un valore considerevole. Si stima che le donne sposate trascorrano circa 3,5 ore al giorno in più rispetto agli uomini sposati a svolgere lavori di cura non pagati.
In Giappone, la terza più grande economia al mondo, secondo un rapporto del Cabinet Office, le donne perdono circa 761 miliardi di dollari per una serie di lavori domestici che svolgono gratuitamente, che equivale all’incirca a un quinto dell’economia nazionale Paese. Il lavoro non retribuito degli uomini è invece meno di un terzo di quello svolto dalle donne.
Il ruolo delle politiche
I Paesi che colmano i divari di genere ne beneficiano registrando sostanziali ritorni in crescita, sostiene quindi l’Fmi. Tra i modi con cui i responsabili politici possono allora stimolare la crescita, ci sono sì le riforme della governance (per rafforzare le istituzioni) o quelle finanziarie (per sbloccare i capitali per gli investimenti), ma non dovrebbero mancare anche le misure volte a ridurre il divario di genere.
Molti ricercatori affermano che è inevitabile che la partecipazione delle donne alla forza lavoro finisca per raggiungere quella degli uomini, ma di questo passo ci vorranno secoli, con la pandemia che ha eroso i progressi compiuti, soprattutto per le donne meno istruite e con bambini piccoli.
Il Fondo Monetario suggerisce, tra le misura da adottare, l’abbattimento delle barriere alla partecipazione al mercato del lavoro e all’istruzione, più diritti legali e servizi di assistenza.
Per quanto riguarda la scolarizzazione, l’Unicef nel 2011 calcolò che l’aumento di un punto percentuale nell’istruzione femminile aumentava il livello medio del Pil di 0,37 punti percentuali. Grazie all’istruzione e alle competenze di base infatti, le donne hanno maggiori probabilità di ottenere un lavoro migliore, guadagnare un salario più alto, uscire dallo stato di povertà e contribuire alla crescita economica e alla produttività del loro Paese.
Anche in Europa facciamo i conti con il divario
Il divario da colmare non è solo nella partecipazione al mondo del lavoro ma anche nelle retribuzioni. Secondo l’Un Women si stanno perdendo 160 trilioni di dollari di ricchezza a causa delle differenze nei guadagni nel corso della vita tra donne e uomini. E vale la pena ricordarlo oggi, 15 novembre, in cui cade la Giornata europea per la parità salariale, ovvero il giorno scelto dalla Commissione Europea contro il gender-gap salariale. Da questo giorno in poi, secondo i calcoli, è come se le donne dell’Unione Europea lavorassero senza essere pagate.
Anche in Italia le donne guadagnano molto meno degli uomini. Lo dicono gli ultimi dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato dell’Inps che registra un gender pay gap di 7.922 euro. La retribuzione media annua complessiva di chi lavora in Italia è infatti di 22.839 euro. Per il genere maschile però la paga è di 26.227 euro, contro i 18.305 euro del genere femminile.
Il fenomeno del gender pay gap ha un impatto anche a lungo termine: stipendi più bassi significano guadagni minori nel corso della vita e quindi pensioni più basse, con il rischio di povertà in età avanzata.
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