Dall’Uganda all’Iran, le discriminazioni raccontate al Mix Festival

“In questo momento, io non ho un padre. Ha cercato di uccidermi, più volte. Come posso chiamare padre qualcuno che ha cercato di uccidermi? Non è mio padre. È il mio nemico.”

Pronuncia queste parole chiudendo gli occhi, come per sollevarsi dalla realtà che non vorrebbe vedere, uno dei giovani appartenenti alla comunità LGBTQ+ raccontati nel documentario “Out of Uganda”, di Rolando Colla e Joseph Burri (Svizzera, 2022). In Uganda vige una delle leggi contro l’omosessualità più severe di tutto il continente africano: a maggio il presidente Yoweri Museveni ha firmato una legge ampiamente condannata da attivisti per i diritti in tutto il mondo. Una legge che prevede ancora la pena di morte per «omosessualità aggravata», definita come i casi di rapporti sessuali che coinvolgono persone infette da hiv così come con minori e altre categorie di persone vulnerabili. Inoltre, un sospetto condannato per «tentata omosessualità aggravata» può essere incarcerato fino a 14 anni.

I protagonisti del documentario combattono per la loro sopravvivenza: restare in Uganda, sepolti da discriminazioni, minacce e oppressione religiosa, li mette continuamente in pericolo. Nel loro esilio doloroso in Svizzera li hanno incontrati i registi per raccogliere la loro testimonianza, su come, in attesa di vedersi riconosciuto l’asilo, pesi su di loro il costo emotivo, fisico e psicologico di essere perseguitati nel proprio Paese – e talvolta dalla propria famiglia – per essere quello che si è.

I documentari del Mix Festival

Out of Uganda” è uno dei titoli del 37° Mix Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e di cultura queer, in programma dal 28 settembre al 1° ottobre a Milano al Piccolo Teatro Strehler e Piccolo Teatro Studio Melato. Un cartellone denso, con 46 titoli di cui 32 in anteprima italiana, e 6 documentari, fondamentali per creare un ponte tra realtà apparentemente lontane, ma vissuti simili e spesso drammaticamente ripetitivi.

Mother Saigon

Mother Saigon” del regista canadese Khoa Lê, offre una serie di ritratti di persone appartenenti alla comunità queer di Ho Chi Minh City, in passato nota come Saigon; “Playland”, debutto alla regia dello statunitense Georden West, combina immagini d’archivio, clip audio storiche e vignette per raccontare la storia del più antico bar gay di Boston; e soprattutto si segnala il pluripremiato “Seven Winters in Teheran” della tedesca Steffi Niederzoll, che racconta la storia di una giovane donna iraniana giustiziata per aver ucciso il suo stupratore.

Seven Winters in Teheran, la storia di Reyhaneh Jabbari

Reyahneh Jabbari

Reyhaneh Jabbari era una studentessa di architettura di 19 anni quando, durante una consulenza per la progettazione di alcuni uffici, subì un tentativo di stupro. Si difese accoltellando l’aggressore, e per questo venne arrestata, detenuta per sette anni e infine giustiziata in Iran il 25 ottobre del 2014, malgrado le proteste dell’opinione pubblica internazionale e quelle di Amnesty International.

Il documentario di Niederzoll ripercorre tutta la vicenda, attraverso la testimonianza dei genitori che raccontano di come, nonostante gli avvocati e la mobilitazione dell’opinione pubblica, nonostante gli sforzi dei politici nazionali e internazionali e delle organizzazioni per i diritti umani, la magistratura iraniana continuò a citare il “diritto alla vendetta di sangue”. Solo se Reyhaneh avesse ritirato le sue accuse, si sarebbe salvata. Ma Reyhaneh mantenne fede alla sua testimonianza e venne impiccata all’età di 26 anni.

La narrazione costruita da Niederzoll mostra molto chiaramente e lucidamente come il patriarcato in Iran si traduca in una serie di ingiustizie e disuguaglianze per le donne. A un certo punto la voce di Reyhaneh racconta di come le sia stato detto che avrebbe fatto meglio a farsi stuprare per poi in seguito denunciare. E nelle parole di suo padre scopriamo una profonda consapevolezza di queste disuguaglianze, quando dice di aver sempre saputo che la vita delle figlie femmine sarebbe stata ben diversa da quella dei figli maschi. È possibile, perciò, che raccontare questa storia abbia anche lo scopo (politico) di parlare della condizione delle donne nel mondo, oltre alla stessa Reyhaneh? È possibile che in qualche modo la sua storia tocchi tutte le donne, tutte le società?

“Jin jian azadi”, Donna vita libertà

Il caso di Reyhaneh non è isolato”, spiega ad Alley Oop la regista Niederzoll: “Ci sono stati tanti casi simili prima e dopo di lei. Volevo mettere in risalto il sistema patriarcale in Iran, che opprime sistematicamente le donne, attraverso la storia di Reyhaneh. Ma non solo in Iran le donne sono oppresse e minacciate dalla violenza sessuale, sfortunatamente è la stessa cosa in tutto il mondo. Spero che attraverso il film questo emerga e ci permetta di prendere posizione, perché finché le donne non sono libere, nessuno è libero! Le ultime parole di Reyhaneh nel film sono: “Desidero il giorno in cui nessuna ragazza verrà più violentata. Desidero il giorno in cui nessuno approfitterà del loro potere. Desidero il giorno in cui i diritti dei deboli saranno non sarà più violato. Spero che i miei desideri un giorno si avverino. E anch’io spero che i desideri di Reyhaneh si avverino. Perché i desideri di Reyhaneh sono anche i miei e quelli di tante donne nel mondo”.

Girare documentare come questi, non è privo di pericoli. Se i registi di “Out of Uganda” hanno incontrato i loro protagonista nel territorio franco della Svizzera, per Niederzoll invece si è trattato di reperire materiale spesso proibito, di parlare con il padre di Reyhaneh che vive ancora in Iran, di sottoporre dunque se stessa e la troupe a continui pericoli, come racconta lei stessa:

Steffi Niederzoll

Era chiaro fin dall’inizio che non saremmo riusciti a ottenere il permesso per girare in Iran, quindi ho lavorato principalmente con filmati esistenti, che sono stati in parte girati di nascosto e con grande rischio. Solo le inquadrature esterne delle prigioni sono state girate appositamente per il film, il che è molto pericoloso. Alcuni cineasti iraniani hanno collaborato per solidarietà e anche come resistenza, perché volevano davvero che la storia di Reyhaneh fosse raccontata. Non ho mai dato per scontato che potesse accadermi qualcosa a livello personale, ma proteggere i membri del mio team e il mio protagonista era una priorità assoluta. Quindi abbiamo mantenuto segreta la creazione del film e abbiamo comunicato solo attraverso canali sicuri, crittografati con password, utilizzando dettagli della trama falsi. E ora, dopo l’uscita, mi rendo conto di tanto in tanto che ci sono forze che vorrebbero tenere il film fuori dal mondo, e anche Fereydoon, il padre di Reyhaneh, è ​​stato interrogato una volta, ma finora non gli è successo niente di peggio e spero che questo non cambi”.

Il programma del festival

Durante la proiezione di Seven Winters in Teheran,  sabato 30 alle 17.50, la regista sarà presente in sala per incontrare il pubblico. Ed è solo uno degli incontri live previsti dal festival, che si fa contenitore soprattutto di momenti di confronto e dibattito. Segnaliamo qui venerdì 29 “Siamo Serie”, panel sulla serialità e le narrazioni moderato da Marina Pierri (scrittrice e narratologa); sabato 30 settembre l’incontro “Sexability” con Nicola Macchione (urologo e divulgatore) che dialoga con con Valentina Tomirotti (giornalista e attivista) e Simone Riflesso (attivista) sulla sessualità vissuta da persone con disabilità; e ancora sabato 30 “Donna, vita, libertà: l’Iran oggi”, moderato da Chiara Sfregola con la partecipazione di Anna Migotto e Sabina Fedeli (documentariste), Sara Hejazi (antropologa e autrice del libro “Iran, donne e rivolte”), Mina Kavani (attrice).

Tutti i film presentati durante questa edizione, saranno giudicati per le tre categorie Lungometraggi, Cortometraggi e Documentari, da tre giurie internazionali che comprenderanno, tra gli altri, Roberta Torre, come presidente della giuria lungometraggi; il costumista, due volte candidato agli Oscar, Massimo Cantini Parrini; la presidente di Diversity Lab Francesca Vecchioni; il regista pakistano naturalizzato italiano Wahajat Abbas Kazmi; l’attrice franco-iraniana Mina Kavani, conosciuta per il suo ruolo in No Bears, Premio Speciale della Giuria alla 79a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

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