Il numero di persone di età pari o superiore a 60 anni ha superato nel mondo quello dei bambini di età inferiore ai 5 anni. È successo nel 2020 e il processo non si arresterà. Entro il 2050, infatti, questa fascia di popolazione costituirà il 22% di quella totale, raddoppiando rispetto al 2015.
Sono questi alcuni dei dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che gettano luce sul fenomeno dell’invecchiamento del nostro Pianeta. Ad essi, si aggiungono quelli relativi allo stato di salute mentale di chi, da ormai più di vent’anni, è nei famigerati -anta. Oltre il 20% di loro, infatti, soffre di un disturbo mentale o neurologico. I più diffusi risultano essere demenza e depressione, che colpiscono rispettivamente circa il 5% e il 7% di questa fascia di popolazione.
Ancora troppi pregiudizi
Nonostante queste evidenze, il rapporto tra invecchiamento e salute mentale è delicato e sfaccettato. In primis a causa dei bias e dei pregiudizi che colpiscono le persone anziane. Molto spesso, queste vengono infatti infantilizzate o, peggio, sono vittime di comportamenti sprezzanti, che minimizzano i loro bisogni e vissuti emotivi. È frequente, inoltre, che le loro difficoltà e il loro malessere vengano ricondotti all’invecchiamento, senza essere accolti, ascoltati e osservati attraverso una lente diversa.
In un contesto di questo tipo, diventa pertanto difficile riconoscere e legittimare la sofferenza psicologica di chi sta invecchiando. Anche per chi è caregiver o fa parte del personale sanitario. La nostra società è infatti vittima di quello che viene definito ageismo (dall’inglese “ageism”), ossia la discriminazione nei confronti di una persona in base all’età. All’interno di questo fenomeno, troviamo l’ageismo interiorizzato, che porta a credere che i problemi di salute, piuttosto che la solitudine o vissuti depressivi, siano normali manifestazioni dell’invecchiamento.
Che cos’è l’ageismo
Una ricerca americana del 2019 ha messo in evidenza la correlazione tra l’ageismo interiorizzato e la probabilità che le persone riferiscano uno stato di salute fisico e mentale scarso. I partecipanti all’indagine che ritenevano che i loro problemi di salute fossero parte normale del loro invecchiamento, avevano una possibilità di più di due volte maggiore di riferire uno stato di malessere psicologico.
Una profezia che si auto avvera e che porta l’anziano non solo ad adeguarsi all’immagine negativa che gli si associa – conducendo stili di vita poco salutari e sedentari – ma anche a sviluppare un sentimento di rassegnazione e impotenza. Uno studio ha addirittura stimato che negli Stati Uniti l’ageismo percepito sia la concausa di 17 milioni di casi di malattia in un anno, per un costo complessivo di 63 milioni di dollari.
Abbiamo bisogno di una ridefinizione dell’anziano, di cambiare il modo in cui concettualizziamo l’invecchiamento. Serve un approccio maggiormente obiettivo, che restituisca la complessità di avere più di 60 anni oggi. In una realtà che ti dice che devi essere giovane a tutti i costi e che, allo stesso tempo, non esita a dirti che sei vecchio.
Una società nella quale il concetto di “anziano” diventa sempre più sfaccettato e liquido. Nella quale vi sono persone che – nonostante abbiano la stessa età – vivono vite ed esperienze profondamente diverse. In virtù del loro stato di salute, delle loro condizioni socio-economiche e della vita che hanno attraversato. Solo grazie a un approccio accogliente, che riconosce i bisogni della persona ancor prima della sua età, possiamo infatti pensare di intervenire in maniera efficace per preservare e promuovere la salute mentale.
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