I partigiani, nell’immaginario degli adolescenti, ma non solo, sono tutti uomini. A scuola (quando va bene) si legge Il partigiano Johnny di Beppe Fenoglio, altrimenti qualche vaga informazione su chi combatteva sui monti, chi faceva saltare i ponti, chi guidava le azioni contro i comandi fascisti o la razzia di armi dei tedeschi. Si tratta di avvocati, insegnanti, operai, contadini che hanno scelto la lotta. E le donne? Restano sempre ai margini di un racconto che ormai si è cristallizzato, nonostante le testimonianze non manchino, i racconti sia stati raccolti e diffusi, le storie siano state tramandate e studiate.
“Senza le donne non ci sarebbe stata la Resistenza. Abbiamo rischiato come gli uomini ma allora in tanti ci guardavano male. E il giorno della Liberazione ci chiesero di non sfilare”.
Commentava Lidia Menapace, nome di battaglia Bruna. Partigiana, parlamentare, pacifista, morta nel dicembre 2020 a 96 anni, partecipò alla guerra di liberazione. E come lei altre 35mila donne che fecero la Resistenza, 70mila aderirono ai gruppi di difesa della donna, 1.859 furono vittime di violenza e stupro, 4.635 furono arrestate torturate condannate, 2.750 furono deportate, 623 fucilate o sono cadute in azione.
Un’ingiustizia parlare dell’altra parte della resistenza. Erano parte di quella stessa Resisteza che viene ricordata e celebrata in occasione del 25 aprile. Anche perché, come ricorda Arrigo Boldrini, nome di battaglia “Bülow”, partigiano e poi membro della Consulta Nazionale prima e dell’Assemblea Costituente e parlamentare e infine senatore, oltre che presidente l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia:
«… intorno ad ogni patriota ci sono quindici persone, in grande maggioranza donne»
riportò Rossana Rossanda ne “Le altre”, edito da Bompiani nel 1979. Allora perché non recuperare quella parte della storia italiana da chi la visse e poi seppe anche raccontarla salvandola dal logorio del tempo (e a volte del revisionismo).
L’Agnese va a morire
Renata Viganò, nata a Bologna nel 1900, entrò nella battaglia partigiana con il nome di “Contessa” e le mansioni di staffetta, collaboratrice della stampa clandestina e infermiera. Veniva da una famiglia bene poi andata in disgrazia, lei decise di rinunciare alle aspirazioni di medicina e fece prima l’inserviente e poi l’infermiera in ospedale. L’armistizio e una serie di vicende a lei vicine la indussero a riscoprire una nuova consapevolezza politica, a cui contribuì anche il marito, che «pettinò la matassa un po’ arruffata dei miei pensieri, e [con cui] incominciai così la mia vera “scuola di partito».
La sua “militanza” opartigiana la vide fra la Romagna e le valli di Comacchio. Al servizio della causa mise anche la sua penna e in quegli anni scrisse per l’Unità, per Noi donne, per Il Progresso d’Italia e altre riviste, e mentre era sfollata a Imola con la famiglia partecipò anche alla stesura della testata clandestina La Comune:
“Scrissi cinque pezzi, tutti rivolti alle donne, a quelle, cioè, che avevano cuore e amore, che soffrivano per cento angustie, che tremavano per i loro cari, assenti o presenti ma tutti immersi nel pericolo”
Il suo capolavoro è, però, del 1949, L’Agnese va a morire. Romanzo neorealista, che, come scrive la stessa autrice nella post fazione, attinge a piene mani alle esperienze che visse durante il periodo della Resistenza. Viganò racconta le vicende di una lavandaia di mezza età diventata partigiana per istinto più che per coscienza politica. Racconta della crescita personale della protagonista e allo stesso tempo della crescita del suo ruolo all’interno di un’organizzazione prevalentemente maschile.
Sapeva molto di più. Capiva quelle che allora chiamava “cose da uomini”, il partito, l’amore per il partito, e che ci si potesse anche fare ammazzare per sostenere un’idea bella, nascosta, una forza istintiva, per risolvere gli oscuri perché, che cominciano nei bambini e finiscono nei vecchi quando muoiono
Scritto in terza persona, il romanzo trasporta in luoghi dove si ha paura, si patisce il freddo, si sente il dolore delle ossa e la spossatezza dei muscoli che spingono sui pedali. Alla storia magistralmente raccontanta si associa un uso stilistico del linguaggio che risulta essere lieve anche nelle descrizioni più pesanti. L’autrice crea associazioni inusuali di parole creando immagini d’effetto e di bellezza: “La svegli sul camino faceva il suo lavoro regolare, metteva via i secondi uno dopo l’altro“. Lo scrittore Sebastiano Vassalli, che firma la prefazione, scisse che “è una delle opere letterarie più limpide e convincenti che siano uscite dall’esperienza storica e umana della Resistenza“. Merito di uno stile cristallino, aderente al vero e dalla potenza disarmante, in grado di ritrarre l’autenticità e la “presenza titanica” della sua protagonista, Agnese.
E senza prosopopea o toni di lotta e di celebrazione, l’autrice racconta fra una nevicata e un piatto di minestra caldo l’essenza di scelte coraggiose anche se pericolose.
“Nella vita partigiana, che si governa con leggi proprie, dettate da un personale bisogno di onore, di fede, di pulizia morale, di ordine intimo, guai se non fosse esistita quella volontaria forma di giustizia, anche in quello che sembrava di scarsa importanza.”
Dal titolo il lettore sa quale sarà l’ultima pagina del libro eppure nel racconto si aggrappa alla speranza che Agnese, di aspetto affatto eroico, possa sopravvivere alla sua sorte e vedere la liberazione di quelle terre e di quel popolo per il quale rinuncia a tutto.
“C’era la banda, dei fiori, delle bandiere, tanta gente alle finestre sulla strada, sulla piazza. Una specie di festa paesana, ma più commovente – le madri abbracciavano i figli, i compagni si ritrovavano -, e, più triste per la mancanza di quellui che erano morti, il povero Cino per esempio, se ci fosse stato, quanti salti e gridi avrebbe fatto e mangiaro i suoi grandi piatti di pasta asciutta. Ma era bello lo stesso, per i vivi; avevano diritto a quella giornata, lasciamogliela godere, dei morti non parliamone: basta ricordarli, e ricordare perché sono morti. Così vedeva l’Agnese il giorno della liberazione”
L’Agnese, non una donna di fantasia, non la somma di tanti volti e tante voci, non una metafora. L’Agnese, incontrata da Renata Viganò mentre viveva un brutto momento da sfollata con il suo bimbo nella bassa. L’Agnese a cui, accostandosi all’autrice, bastò la frase “E’ lei la Contessa?” per ridare speranza e colore alla vita di chi pensava di essere perso, per definire partigiana Renata Viganò che seppe rispondere a quella chiamata. E poi, dopo la guerra, la stessa Viganò seppe raccontare quella donna e con lei tutte le donne della Resistenza.
Diario partigiano
Altro stile, altro libro. Diario partigiano di Ada Gobetti e un documento storico, poco romanzato, basato su quanto l’autrice visse e riuscì ad appuntarsi via via, per non dimenticare luoghi, date, volti, nomi. Nata a Torino nel 1902, Ada Gobetti condivide con Renata Viganò l’interesse per la scrittura: alle riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti di Piero Gobetti, che sposerà poi nel 1923 e da cui avrà, nel 1925, il figlio Paolo. E proprio del figlio e del suo impegno fra i partigiani parla nel libro, ltre alle vicende di quanti incontrò in anni di lotte, tritolo, clandestinità e paura. Una paura che doveva piegarsi alle regole della disciplina partigiana per non mettere in pericolo la lotta, gli altri, la liberazione.
“Di nuovo nella mia mente si susseguivan le domande e le ipotesi. Avevan fatto il colpo? Era riuscito? Eran stati scoperti prima? Li avevan presi dopo? Alle sette, sfinita e disperata, mi buttai sul letto, mentre una debole luce si faceva strada tra le nuvole”
Nel racconto Ada Gobetti si scopre più fragile di fronte alla sorte incerta e pericolosa del figlio, che non all propria. Nel fare trova un senso, un coraggio, una determinazione che sfidano le paure più profonde, come motivate da un bene superiore. Un ruolo, quello di partigiana, a cui non si poteva non aderire se si credeva in certi ideali. E per Ada Gobetti era un moto ben precedente allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
Un resoconto prezioso il suo, dal punto di vista storico, come sottolinea Italo Calvino che firma la prefazione: “Questo libro di memorie della Resistenza ha un carattere d’eccezione, più che per l’importanza dei fatti che racconta, per la persona che l’ha scritto e il modo in cui la guerra partigiana viene vista e vissuta. E’ il libro d’una donna la cui vita era segnata dalla lotta antifascista: ada Prospero, la vedova di Piero Gobetti, il giovane martire del primo antifascismo italiano, animata da una passione di libertà, da un bisogno di azione, da un coraggio eccezionali”
E’ il libro di una madre che divide l’esperienza della Resistenza con il figlio appena diciottenne, che non riesce a non andare all’azione. E attorno a loro si muovono figure note e meno note della lotta partigiana. Memorie stese su sollecitazione di Benedeetto Croce e poi raccolte in un volume due anni dopo la Liberazione. Arrivarono in libreria, però, solo nel 1956.
Altre letture partigiane a firma femminile
Gobetti e Viganò sono solo due delle tante donne che hanno raccontato quegli anni, quella parte di storia italiana che troppo spesso viene persa nelle pieghe dei libri scolastici fra alleanze, trattati, capovolgimenti di fronte. Una parte della storia che rischia ora di scivolar via, mano mano che nelle famiglie italiane verrà a mancare la voce di chi la visse, di coloro che nascosero soldati americani nelle stalle, fecero la staffetta per portare notizie ed esplosivo, assistettero impotenti alla fucilazione in piazza di un familiare. Per loro e per noi questi libri sono un lascito di consapevolezza e di speranza per la costruzione di un futuro di diritti e libertà.
Negli scaffali delle librerie magari non si trovano, ma si possono sempre tirare fuori dal dimenticatoio libri come:
- Una vita partigiana. Perché la battaglia per i nostri diritti continua ancora oggi e Storie di una staffetta partigiana di Teresa Vergalli
- Partigiane di Teresa Vergalli e Johannes Bückler
- Non avevo sei anni ed ero già in guerra di Tilde Giani Gallino
- Un amore partigiano di Iole Mancini e Concetto Vecchio
- La Resistenza delle donne di Benedetta Tobagi
- Il mio nome è Selma. La coraggiosa testimonianza di una combattente della resistenza ebraica di Selma Van de Perre
- Fischia il vento. Felice Cascione e il canto dei ribelli di Donatella Alfonso
- Vera. Resistenza, deportazione e impegno di Vera Michelin Salomon di Greta Fedele e Sara Troglio
- Partigiano Rita di
- Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico» 1940-45 di Michela Ponzani
- La Resistenza taciuta di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone