La sottile tentazione di lavorare meno

“L’ultimo mantra è lavorare meno!”
Orecchio questa esclamazione in un’enoteca, nel dialogo tra due professionisti: due uomini che stanno discutendo del senso della vita. Mentre il primo ha capito che può riversare nello sport – due ore al giorno  – le energie risparmiate sul lavoro, il secondo si sente ostaggio di un eccesso di pratiche e si lamenta di “lavorare troppo”.

I suggerimenti del primo, che proprio non riesce a farsi una ragione dello stress dell’amico, potrebbero comporre un decalogo del lavoratore post-pandemia: come prima cosa gli suggerisce di delegare, il più possibile. L’altro cerca di spiegare che è proprio il lavoro a essere tanto e che, quindi, anche delegando rimane tanto, per tutti. Ma l’amico non si perde d’animo e gli propone la soluzione finale ai suoi problemi:

“E’ che tu lavori da otto e mezzo-nove, e invece devi lavorare da sei e mezzo-sette!”.

L’espressione del professionista a questo punto è da incorniciare, mentre mentalmente ripassa quali delle centinaia di pratiche che gli passano sulla scrivania potrebbe semplicemente “tirar via”, e forse da domani ci proverà, puntando alla sufficienza.

“Vedi – incalza l’amico – io oggi ho finito di lavorare alle quattro – e certo che avrei avuto altro da fare ma non l’ho fatto, sono andato a correre e non è cascato il mondo!”.

Erano uomini sopra alla cinquantina, perché la ricerca di un miglior equilibrio di vita mica l’ha scoperta la generazione Zeta, con l’unica differenza che gli X come loro pensano che a un certo punto della vita se lo meritano pure, di tirare un po’ i remi in barca, mentre i giovani che le aziende incontrano oggi la vedono come una scelta che possono e vogliono fare da subito: “Lavorare meno”.

Ma è davvero lavorare meno quel che cercano, mentre sul tavolo mettono anche altri aspetti della vita? Perché se il metro è solo quantitativo allora sì, non ci resta che decidere quanto lunga deve essere la coperta e fin dove può coprire, togliendo un pezzo di qua per metterlo di là. Ma il concetto di lavoro “a peso” è già stato rivoluzionato dal lavoro della conoscenza, che come metro ha iniziato a usare il tempo invece delle unità prodotte. E adesso, che anche la misura del tempo ha perso terreno nelle situazioni in cui allo stesso compito si confrontano un processore umano e uno digitale, che cosa possiamo usare per misurare il valore del lavoro umano?

E’ questa la domanda implicita che fanno i giovani di oggi alle aziende che li intervistano: con quale metro deciderai che valore dare al mio lavoro? Se la risposta è “il tempo”, l’esperienza lavorativa appare subito molto debole, antiquata. E’ tutto qui quel che riesci a vedere, quel che per te ha un valore oggettivo? Eppure i loro genitori ci sono stati: hanno ceduto tutto il loro tempo al lavoro, accumulando così nella banca dei Signori del Tempo (dal romanzo “Momo” di Michael Ende) ricchezze di cui hanno pianificato di godere alla fine della carriera – ricchezze intese proprio come risparmi di tempo.

Il mercato del tempo, quindi, è già noto e non convince più: non c’è tasso di interesse che possa spingere i giovani a cedere tutto, oggi, in nome di un fantomatico futuro che, glielo ripetiamo sin da quando sono nati, potrebbe non arrivare mai.

Provvisoriamente, sembra esserci una recrudescenza dei termini economici che, in mancanza di altro, danno l’impressione di essere una valuta universale: e quindi la retribuzione torna a sorpresa tra le prime leve di attrazione anche per i giovani. Se non il tempo, allora il denaro: sempre una quantità, ma una quantità che rende il lavoro una commodity, dove vince solo chi paga di più.

Ma il gioco del lavoro potrebbe cambiare nome, potrebbe cambiare regole? C’è altro che si potrebbe misurare, un valore che ci liberi da un gioco a somma zero in cui la coperta è sempre tropo corta e, inevitabilmente, lascia qualcosa di scoperto?

Quello di lavorare di meno può essere un nuovo mantra, ma è contemporaneo a un altro ugualmente recente, quello del talento. Talenti sono le persone, ma talento è anche quel certo non so che che, quando lo mettiamo in gioco, ci fa fiorire. Una capacità, un’inclinazione, un modo di fare le cose speciale e solo nostro che rende ogni persona maestra in almeno un’attività, tutto sta a trovarla (o inventarla). E’ possibile portare il proprio talento praticamente in ogni mestiere, se lo si traduce in modi di fare e di essere che riconosciamo come propriamente nostri.

Lo ha detto meglio di me lo scrittore Alessandro D’Avenia:

“Il nostro talento è la parte di noi destinata al mondo ma, se non lo scopriamo e mettiamo in gioco, di noi non resterà nulla, perché il talento è l’amore che ci è già stato dato ma che sta a noi decidere se girare al mondo, vincendo la paura di non averlo e la pigrizia di non giocarselo”.

Il gioco del talento, allora, è quello che porta il meglio di noi a esprimersi anche nel lavoro che facciamo: non una questione di dimensioni né di durata, ma di vera e propria qualità. Tanto che, spinti dal talento, possiamo perdere il senso del tempo e un minuto può rivelarsi profondo come un mese, o un mese breve come cinque minuti – accade se si è nel cosiddetto “flusso” di chi crea ed esprime sé stesso, vivendo un’ “esperienza ottimale”.

Al gioco del talento, quindi, la coperta non è mai troppo corta, perché quel che si mette in gioco è destinato al mondo e non riguarda una transazione, ma il riconoscimento del senso di chi siamo e del perché siamo.
Perché non lo giochiamo, allora? Al di là dell’esistenza di regole pregresse che ci hanno abituati a misurarci con tutt’altro, D’Avenia sintetizza molto bene cosa ci trattiene: la paura di non averlo, la pigrizia di non giocarselo. Paura e pigrizia che, se fossero tutto ciò che abbiamo, ci lascerebbero effettivamente solo con la scelta di “lavorare di meno”.

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  • RoberDieR |

    Ogni approfondimento è molto accattivante e suggestivo.
    Ma per me: in fondo rivela un mondo venutosi progressivamente a creare sempre più complesso.
    Di mille incognite ed una equazione…..
    E non se ne puo’….

  • Anna Donato |

    Non sono d’accordo col finale, perché come tutte le sfumature della vita, non sempre c’è una regola che vale per tutti. Mi appare giudicante questa conclusione. Io sono una persona appassionata del suo lavoro eppure vorrei lavorare meno, perché il carico di lavoro è diventato troppo eccessivo, sfiancante, disumano. Non per questo ho perso il talento o non voglio spenderlo, anzi. Ma sono stremata, morire di troppo lavoro non voglio.

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