Sigmund Freud non ha bisogno di presentazioni. Padre della psicoanalisi, neurologo e filosofo, è ancora oggi letto, studiato, citato. Ciò che spesso non si conosce della sua vita, però, è il fatto che litigasse spesso. Lo fece con molti di quelli che sono considerati i suoi discepoli: Ferenczi, Adler, Rank, Jung. Quando ruppe con quest’ultimo scrisse “Totem e tabù”, una collezione di quattro saggi che coniugano antropologia e psicologia, esplorando il concetto di sacro (totem) e quello di proibito (tabù). Un’opera che racchiude riflessioni oggi in parte superate, ma che si avventura nell’esplorazione di ciò che stigmatizziamo e nelle ragioni per cui lo facciamo.
“Alla base del tabù c’è una corrente positiva di desiderio. Perché non c’è bisogno di proibire ciò che nessuno desidera fare, e comunque ciò che è proibito nella maniera più energica deve essere oggetto di un desiderio.”
Scrive Freud.
I tabù che abbiamo come esseri umani sono tanti: sesso, sostanze, morte, psiche, soldi. Negli ultimi anni è quello legato alla mente ad essere sotto i riflettori. Il benessere psicologico sembra ormai essere stato sdoganato, tanto da essere diventato un termine di uso comune. Dentro e fuori le aziende si parla della dimensione mentale delle persone, si utilizzano termini come ansia, stress e burnout, le emozioni diventano oggetto di conversazione e l’attenzione verso questi aspetti cresce giorno dopo giorno. Un traguardo senz’altro importante, anzi, necessario, che però rischia di gettare fumo negli occhi e far distogliere lo sguardo da quello che è e rimane un tabù: la malattia mentale.
Parlare di benessere psicologico rimanda a una dimensione di salute e abbraccia tanto difficoltà e disagi, quanto risorse e punti di forza. È questa la sua forza. Parla a chiunque. Tanto a chi sta male, tanto a chi sta bene e desidera conoscersi meglio, magari attraverso un percorso di supporto psicologico o – perché no – di psicoterapia. Tutto bene, finché l’ombra della malattia non aleggia. Finché la parola “diagnosi” è tenuta lontana, finché non ci si addentra nei sintomi. Il fatto che la malattia mentale sia ancora un tabù, è evidente da tre aspetti: la narrazione che se ne fa, l’immaginario legato agli psicofarmaci e l’incapacità diffusa di rapportarsi con chi ha una diagnosi.
La narrazione della malattia mentale
La legge Basaglia risale al 1978, ma l’immaginario del manicomio – anche a causa di film e rappresentazioni – rimane. Quando si pensa a una persona che ha un disturbo psichico si pensa a un individuo che sente voci, vede cose che non esistono, ha comportamenti profondamenti violenti. Non si pensa all’amico che convive con un disturbo bipolare o al conoscente che soffre di depressione. Il tabù legato alle malattie mentali si nutre di spettacolarizzazione e pregiudizi. E soprattutto guarda la malattia e non il malato. Rimanda a traumi, richiama il sospetto di abusi e mancanze nell’infanzia. Tutte possibilità, certo, ma troppo spesso si ignora che la causa è comunque sempre anche organica. In maniera non dissimile da quella di una malattia fisica. Si è malati, non pazzi.
L’immaginario legato agli psicofarmaci
Ibuprofene e paracetamolo sono i principi attivi dei farmaci più comuni. Pastiglie e compresse che abbiamo l’abitudine di comprare, vedere assumere, ingerire. Senza tendenzialmente questionare o metterne in dubbio l’efficacia. Medicinali da banco di cui si parla liberamente. Agli psicofarmaci è riservato un altro trattamento, ben più timido e sospettoso. Sensato dal momento che non possono essere somministrati con altrettanta leggerezza degli antinfiammatori, ma non è qui che ne risiede la ragione. Altrimenti non si spiegherebbe l’uso di benzodiazepine da parte degli studenti universitari di tutto il mondo. La ragione risiede nel fatto che ancora permane l’idea che se stai male da un punto di vista psichico è perché non ti impegni abbastanza. Forse, non vuoi guarire. Sei debole. Tutti pensieri che non verrebbero mai rivolti a chi combatte con una cefalea a grappolo piuttosto che dei calcoli renali.
L’incapacità di rapportarsi con chi ha una diagnosi
Che non è altro che l’incapacità di rapportarsi con la diagnosi stessa. E dunque con la malattia. Le malattie fisiche si conoscono, si possiedono i nomi per nominarle, si hanno in mente i principali sintomi. Con quelle mentali questo non avviene. La confusione è massima e se ci si trova di fronte a una persona che ne soffre, non si ha quasi mai idea di come interagire con lei. Basterebbe chiederlo, ma si ha talmente tanto l’urgenza di tenere le distanze – quasi ci fosse il rischio di contagio – che questa opzione è spesso ignorata. Si finisce così per minimizzare e non riconoscere il malessere altrui, sebbene lo si faccia spesso con buone intenzioni. Vedrai che poi passa. Non ci pensare. I problemi sono altri. Sarà una fase. Per non parlare di quelli che sono considerati “i pazzi veri”, che richiamano immediati comportamenti di fuga ed evitamento più totale.
Finché il totem sarà il benessere a tutti i costi, il tabù della malattia mentale rimarrà. Forse perché in fondo – sembrano suggerire le parole di Freud – desideriamo tacitamente uscire dalla ruota del criceto sulla quale corriamo a massima velocità per scappare dalle nostre fragilità.
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