Lo stress è vita. Affermava Hans Seyle, massimo studioso in questo campo.
Eppure, questo vissuto è anche in grado di mettere a dura prova l’equilibrio psico-fisico individuale. Nelle aziende italiane, succede a una persona su due. È quanto emerge dai dati 2022 dell’Osservatorio annuale Mindwork – BVA Doxa sul benessere psicologico di lavoratori e lavoratrici. Un dato che appare ancora più critico se si guarda a chi ricopre ruoli dirigenziali: in questo caso, la percentuale di chi convive quotidianamente con forti vissuti di stress sale infatti al 63%.
Oggi si apre l’International Stress Awareness Week, una ricorrenza annuale dedicata alla sensibilizzazione verso questo tema e, più genericamente, ad abbattere lo stigma nei confronti della salute mentale. L’occasione è utile per riflettere su come il concetto di stress stia evolvendo alla luce della società contemporanea, trascinando le persone in un vero e proprio loop. Da cui, sempre più spesso, faticano ad uscire.
Il tutto si origina da un elemento poco considerato quando si parla di stress: il recupero. Ossia il processo di ripristino dell’organismo a livelli precedenti all’esposizione alle fonti stressanti. Si tratta di un meccanismo sì fisiologico, ma anche psicologico: le modalità variano da persona a persona. Più ci si conosce e si ha consapevolezza di sé, maggiore è infatti la capacità di gestire questi vissuti e mettere in pratica strategie di coping efficaci.
Questa abilità è nota in tutti quei contesti che richiedono prestazioni sotto forte pressione e massima concentrazione, come ad esempio performance sportive ad alti livelli. Campi in cui il recupero fisico e mentale è fondamentale per raggiungere e mantenere risultati elevati. Tanto che in alcuni casi gli sportivi sono tenuti a recuperare per periodi di tempo definiti, al fine di mantenere e superare i loro standard.
Eppure, è proprio questo processo di recupero che genera e alimenta quel loop nel quale sempre più persone sembrano cadere quando si tratta di stress.
La ricerca evidenzia infatti che tanto più le persone hanno bisogno di ripristinare le proprie energie e risorse a fronte di un periodo fortemente stressante, tanto meno sono propense a farlo. Chiunque abbia vissuto una fase di vita o lavoro caratterizzata da elevato stress, l’ha sperimentato: più le attività sono serrate, più si finisce in un ciclo negativo di orari prolungati, assenza di pause, stili di vita poco salutari e così via. Tutto ciò che farebbe stare meglio, viene infatti evitato. Non per scelta, ma per quella che viene percepita come necessità.
Le aziende che incentivano – direttamente o indirettamente – attività di lavoro incalzanti, prolungate e votate alla costante urgenza, hanno ovviamente un ruolo drammaticamente centrale in tutto questo. Spingono infatti la singola persona a pensare che dovrebbe farcela, a discapito di ciò che la sua mente e il suo corpo le comunicano. Questa dinamica finisce così per generare profondi sensi di colpa: dire di no o prendersi una pausa sono comportamenti che diventano inconcepibili. E che, alla lunga, si finisce per non ricordare nemmeno più.
In uno scenario di questo tipo, è evidente la necessità di intervenire alla radice: è infatti essenziale lavorare sulla cultura organizzativa. Un processo tuttavia lungo e impegnativo, che anche quando viene attivato, finisce per dare risultati proiettati in un tempo futuro, a volte troppo remoto. La persona si trova così da sola nel suo loop e le soluzioni per uscirne si riducono. Una possibilità diventa quella di lavorare su di sé e sulle proprie strategie di coping, piuttosto che allenare la propria autodisciplina, al fine di riuscire a combattere i sensi di colpa e connettersi con i bisogni che mente e corpo comunicano. Palliativi che arrivano a consentire una gestione dello stress anche buona – per lo meno nel breve termine – ma che aprono un interrogativo: a quale prezzo?
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