Abbiamo tutti bisogno d’amore, eppure ne parliamo poco e male

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Ancora oggi, gli articoli più letti e commentati sono quelli sull’amore. Non a caso, il noto psicologo Abraham Maslow lo ha messo al terzo posto nella sua piramide, subito dopo i bisogni fisiologici (aria, acqua, calore, sonno e riproduzione) e quelli di sicurezza (salute, stabilità economica e familiare, pace), definendo quello ad amare e ad essere amati come un bisogno “psicologico”: una necessità per stare bene, una specie di copertura fisiologica e di sicurezza dei bisogni della nostra psiche, che magari si vede meno del corpo ma c’è e si fa sentire.

Il bisogno di amore fa da motore primario dei consumi: spendiamo per essere amati di più, passiamo ore sui social per verificare quanto ci vedano e apprezzino gli altri, compiamo ogni giorno decine di gesti di ricerca di amore usando quel che ci viene proposto come canale principale per ottenerlo: i nostri mini broadcast digitali. Ma, per qualche misteriosa ragione, l’amore non è considerato un attore di rilievo nelle nostre scelte politiche, sociali ed economiche, e arriva sui giornali solo quando si trasforma in minaccia o crimine.

Come l’aria e come il cibo, l’amore ci è necessario per restare in vita (la ragione di tanta importanza è biologica: la Natura ha stabilito per l’amore un ruolo legato alla necessità umana di essere protetti e curati dalla nascita e fino alla morte) – quindi perché ridurre la possibilità di parlare d’amore all’ambito privato o di costume (o, in modo distorto, nella cronaca nera) e non farne l’oggetto di una cultura più generalista, più consapevole e coraggiosa, che lo veda e lo nomini anche nel contesto lavorativo e in quello sociale, in quello politico e in quello economico?

“Mi va bene qualsiasi forma di affetto, basta che ci siano gli abbracci e le coccole. Va bene anche se fai finta di volermi bene oppure se mi dici che mi vuoi bene ma pensi ad un altro. Va bene tutto”.

È il commento accorato di Emanuele, un lettore di Alley Oop, a un post sull’amore: una delle molte espressioni poetiche e drammatiche che nascono da un bisogno veramente di base, che non si accontenta di amicizie virtuali e vuole “qualsiasi forma di affetto” purché sia tangibile, perché l’amore è quello che ti tocca.

Torniamo all’amore quando ci succedono le cose importanti, quelle che rimettono tutto in prospettiva. Quando una persona cara si ammala e porta con sé anche la nostra storia, capiamo che l’amore ingrandisce lo spazio che definisce quel che siamo, facendoci perdere il controllo sulle conseguenze. Laddove mettiamo amore, c’è luce ma c’è anche paura: vediamo di più e sentiamo di più: se fosse una porta e potessimo scegliere, chissà se la terremmo aperta tutto il tempo.

Eppure è strano, e ci sta facendo male come società, questo modo di non parlare d’amore, avendone legittimato a livello collettivo solo le dimensioni di consumo (economico) o di coinvolgimento (lavorativo e politico): che sia casuale o il frutto di un pensiero che vi ha volutamente contrapposto la razionalità, la mancanza di un investimento culturale intorno a questo bisogno così potente la stiamo pagando tutti, come individui e come comunità.

La stiamo pagando perché investiamo meno di noi in tutti i luoghi in cui non possiamo nominare l’amore: vediamo di meno, e forse soffriamo di meno, ma interveniamo anche meno e siamo meno generosi di noi stessi, e alla fine ci manca la fonte di energia naturale che appaga il bisogno di nutrimento e sicurezza delle nostre menti e dei nostri cuori.

Ci volevano il coraggio e l’immaginazione di Dante per chiudere la Divina Commedia parlando de “l’amor che move il sole e l’altre stelle”; mentre la nostra stagione assomiglia di più alle parole di una madre (ferita dal figlio e dalla nuora), nel suo commento al post di Alley Oop:

Adesso vorrei andarmene lontano di loro, occhi che non vedi cuore che non senti.
Edith

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