Giovani e lavoro, una vita in stand-by, tra precariato e disoccupazione

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Laura C. ha 29 anni e la sua sveglia al mattino non suona. È disoccupata. E lo è proprio nel periodo in cui dovrebbe poter ottenere il massimo dalla sua carriera, ambire a una promozione, a una crescita economica, a nuove responsabilità. Invece Laura è in attesa, disorientata e scoraggiata, nel bilocale che ha affittato a Parma, città in cui si è trasferita due anni fa da Trento con in tasca il certificato di laurea magistrale in storia dell’arte e un bagaglio pieno di aspettative.

La sua è una storia comune a tante altre sue coetanee e coetanei, traditi da un sistema formativo completamente disinteressato all’inserimento sul lavoro. Quasi che riempire il libretto universitario sia l’unica mansione a cui adempiere. Fatto, ora di questi ragazzi se ne occuperà qualcun altro. Già, ma chi?

«Impazzisco per Guido Reni, pittore bolognese di metà ‘500, e avrei sempre voluto lavorare in un museo, per questo ho studiato arte. Ma ho scoperto che con la mia laurea nei musei si può accedere solo alla mansione di guardiania, per altre posizioni, serve un’ulteriore laurea specialistica. Nessuno all’università me l’aveva spiegato, né mi ha detto come mi sarei dovuta orientare dopo la laurea, tra tirocini, stage, concorsi pubblici e qualsiasi altra cosa possa produrre il farraginoso mercato del lavoro italiano» racconta Laura.

Così, ha fatto da sola. Ha iniziato prima un progetto con il servizio civile, durato un anno, con un rimborso spese di circa 450 euro mensili. Progetto per il quale ha cambiato città e le cui competenze principali hanno riguardato, più che la conoscenza dell’arte, la padronanza delle lingue straniere. «Tornassi indietro, sceglierei un indirizzo linguistico» scherza Laura, ricordando anche l’anno dell’Erasmus in Inghilterra fatto durante l’Università. «Stavo pensando di trasferirmi definitivamente lì, ma poi è arrivata Brexit e ho bloccato tutto».

Nel frattempo, per rimpinguare l’esiguo rimborso spese, ha iniziato a lavorare come maschera a teatro. Un lavoro a chiamata e senza progettualità, ma in un ambiente piacevole e culturalmente stimolante. Nel mezzo, mille altre esperienze, tra cui anche una stagione da cameriera in un bar, conclusa dopo appena due mesi. «Anche in questo caso il contratto era a chiamata: circa 60 euro al giorno per un minimo di 6 ore, che la maggior parte delle volte si trasformavano in 9 o 10, senza pause. Non ci ho messo molto a capire che non faceva per me, così ho mollato. Meglio avere meno, ma a condizioni migliori» riflette.

Già, ma quali sono i valori non negoziabili per Laura? «Mi sono iscritta nelle graduatorie scolastiche come insegnante di arte, vedendo la scuola come il grande ombrello in cui ripararsi anche nei tempi più bui. In attesa della chiamata, visto che il lavoro a teatro si è interrotto, prendo l’assegno di disoccupazione. All’inizio la vedevo come una sconfitta personale, ora ho imparato a conviverci e a valutare le cose da una prospettiva diversa. Oggi mi dico che il lavoro, specie un lavoro così precario e mal retribuito, non sarà mai tutta la mia vita. Spero di trovare un impiego che mi appaghi, che mi faccia sentire viva, ma che mi dia anche spazi e tempi per me, con uno stipendio adeguato, non sotto la soglia di povertà. Soprattutto, vi prego, basta tirocini. Facciamo tirocini fino a 40 anni, e poi?».

Ecco, e poi? E poi, dovremmo forse tornare indietro e chiederci quando abbiamo deciso di mettere in panchina intere generazioni. Sì, al plurale, perché questa storia in Italia va avanti da almeno un decennio. «Un tempo – conclude Laura – chi faceva l’Università entrava quasi di diritto nel cosiddetto ascensore sociale. Oggi, quell’ascensore non solo è fermo, ma è anche muto». Proprio così: viviamo in un silenzio assordante in cui manca tutto, ma facciamo finta che non ci sia bisogno di nulla.