Cinema, Céline Sciamma: “Femministe si diventa, è un lungo lavoro”

cecile

Un paio di pantaloni larghi, cardigan a quadrettoni, capelli legati in una coda disordinata, fisico minuto: pareva una ragazzina infilatasi a curiosare in una festa di adulti Céline Sciamma, una delle più grandi registe francesi – autrice fra gli altri di “Tomboy” (2011), “Diamante nero” (2014), “Ritratto della giovane in fiamme” (2019) – venerdì 30 settembre nel chiostro dell’Umanitaria di Milano, quando ancora nessuno sapeva che fosse lì, che fosse lei ad avere vinto la prima edizione dei nuovissimi premi Al Femminile, ideati da Aimara Garlaschelli e Ilaria Branca, spinte dal desiderio di ascoltare voci di donne raccontare il mondo, e promossi dalla Società Umanitaria di Milano.

Un riconoscimento, anzi due, dedicati alle donne che sono riuscite a fare del cinema la loro professione, un settore dove esiste un fortissimo divario tra i generi se si pensa ad esempio che ancora oggi in Italia, su 894 progetti realizzati con fondi pubblici, solo il 16% sono stati diretti da una donna e che i personaggi femminili sopra i 45 anni nel cinema italiano praticamente scompaiono, per ricomparire solo dopo i 70 anni. Il primo, il Premio Ilaria Branca di Romanico, è dedicato alle sceneggiature, ed è stato consegnato da Donatella Finocchiaro ad Alice Manzati per la sua “Marea”, storia di un ragazzo italiano di origini sudamericane che vuole diventare regista nella periferia milanese. Mentre a Sciamma, semplice e intensissima come i suoi film, è stato assegnato il Premio presidente della società umanitaria per il suo “Petite Maman” (2021) di cui ha firmato anche la sceneggiatura. Un film dove “nel sogno della prima età Nelly, otto anni, può fare amicizia con la bambina che la madre è stata in quello stesso bosco dove, ora, lei si trova”, si legge nella motivazione, che si conclude affermando che “Nel tempio sacro dell’infanzia, dove passato e futuro si specchiano sulla superficie del presente, la femminilità per Sciamma è ascolto, sapere accogliere la verità intima e segreta di ogni relazione profonda e autentica”.

Céline Sciamma, essere una regista “donna” è un’etichetta ghettizzante o qualcosa da rivendicare?
Io sono materialista, sono effettivamente una donna, è vero che veniamo sempre ricondotte al nostro essere donne, è la dialettica in cui ci mettono, io mi assumo questa responsabilità. La prendo non come una riduzione, ma come un’amplificazione. Valorizzo quest’etichetta, non la subisco. Cerco di essere all’altezza del momento politico. (E poi non è un ghetto perché essere con delle colleghe femministe è la migliore compagnia!)

La scelta di ritrarre personaggi femminili è una scelta solo estetica o anche politica?
Innanzitutto è un desiderio, non è una scelta opportunistica o strategica, c’è un desiderio che mi porta verso questi personaggi. E poi naturalmente è una scelta che ha anche un suo impatto, perché è molto raro che le donne siano protagoniste, e quindi si percepisce un contrasto rispetto agli eroi cui siamo abituati. Ma non è perché facciamo le cose con naturalezza che non bisogna rivendicarle con forza! Quando racconto una storia è perché non vedo altra storia più interessante di quella. Tutto si muove insieme nelle scelte che faccio per il film, è un desiderio per una storia, per un personaggio, per la lingua cinematografica che si parla con un certo film. Il cinema costa molti soldi e perciò è particolarmente importante che ci sia una volontà di generare un impatto, emozionale, politico… Tutti i miei film hanno questa volontà di dare origine a un impatto, che è femminista e pacifista, perché il femminismo è un pacifismo.

Pensa che i registi uomini possano ritrarre le donne nello stesso modo delle registe donne?
Credo che i personaggi del cinema siano delle idee, le idee femministe non sono necessariamente delle donne, vediamo bene che ora in Italia c’è un primo ministro donna che non è femminista. Le idee femministe possono generare dei film al di là del genere di chi le realizza, ma è una scelta, non è qualcosa che avviene per caso. Le donne hanno l’esperienza di cosa sia essere donne nel modo, e questo fa sì che possano raccontare una storia vicina alla loro esperienza, ma chiunque può decidere di crescere politicamente e iniziarsi a delle idee che avranno un impatto su un film o un personaggio. Ma questo passa necessariamente per un grande lavoro, uno studio, una presa di coscienza.

Femminista si diventa, bisogna fare un lavoro su sé stesse, anche per le donne?
Sì, certamente.

Ma pensa che sarà sempre così, che anche in un ipotetico mondo paritario, ugualitario, le idee femministe dovranno essere ogni volta conquistate, o saranno una cosa naturale?
Dipende dal mondo che sarà. Femminismo e capitalismo possano convivere? Penso di no. Nel quadro del patriarcato ci sarà sempre un lavoro, una lotta, da fare. Se ci sarà un altro sistema politico allora forse sì.

Siamo cresciuti tutti, donne e uomini, con delle narrazioni fatte principalmente dagli uomini, quali sono secondo lei le conseguenze?
Un immaginario estremamente rigido e ridotto. Per arricchire questo immaginario bisogna andare in due direzioni: non solo nel futuro, ma anche nel passato, recuperare le opere delle donne, che ci sono sempre state ma sono cancellate. Prendiamo ad esempio Charlie Chaplin, tutti lo conoscono, ma nel cinema muto prima di lui c’era Mabel Normand, che era una “star”, era stata la sua mentore. Bisogna andare a vedere questi film, recuperare l’immaginario del passato, che non ha perso la sua vitalità, perché restano delle idee nuove.

© Francesco Garlaschelli Céline Sciamma con Paolo Mereghetti alla cerimonia dei premi "Al Femminile" alla Società Umanitaria di Milano

© Francesco Garlaschelli
Céline Sciamma con Paolo Mereghetti alla cerimonia dei premi “Al Femminile” alla Società Umanitaria di Milano

“Una scrittura femminile”, un “film fatto da una donna” sono usati spesso in forma dispregiativa, o ghettizzante, come qualcosa di diverso dalla letteratura tout court, dal cinema tout court. Così li valutano gli uomini, a volte le donne, ma questo probabilmente è dovuto dal fatto che gli uomini e le donne non hanno l’abitudine di leggere i libri di scrittrici, di vedere film fatti da donne, quando accade li percepiscono come qualcosa di strano. Mentre le donne sono cresciute con l’immaginario maschile e non hanno grandi difficoltà a immedesimarsi in un uomo. Allargare l’immaginario della società, con film come i suoi, non solo l’arricchisce, come arricchisce il cinema, la letteratura, ma favorisce una maggiore comprensione tra le persone, all’interno delle famiglie stesse.
Sì… è vero… ma la domanda? (sorride)

Ops, era una considerazione… (Ridiamo, è così affabile Céline Sciamma, che viene voglia di chiacchierare come con un’amica. L’idea femminista di non prevaricazione sull’altro non permea solo i suoi film, ne è lei stessa l’incarnazione). Ecco la domanda: lei ha descritto soprattutto l’interiorità delle donne, l’aver visto l’ampiezza del movimento #metoo, la marea di donne che hanno denunciato molestie e ricatti sessuali in ogni Paese, in ogni continente, non le ha dato la voglia di parlare anche di questo? Di come le donne sono ostacolate nel modo del lavoro e devono rinunciare alla loro carriera a causa di uomini che le molestano o ricattano sessualmente?
No, non è qualcosa che al momento mi è successa, non mi ha dato voglia di lavorare su questo argomento, mi ha dato soprattutto voglia di militare per luoghi di lavoro sicuri. Questa violenza non ho voglia di raccontarla, ma di contribuire a combatterla nella realtà. È così che il #metoo mi ha mobilizzato.

È mai stata molestata durante la sua carriera?
No, ma il cinema è molto gerarchizzato e io sono al vertice della gerarchia, dunque essendo in una posizione di potere non sono a rischio, e lavoro soprattutto con donne, anche se certo questo non garantisce che non ci siano abusi di potere. Ricevo però un numero enorme di segnalazioni di molestie nel mio ambiente.

Quando ha scoperto che voleva essere regista e quando regista che parla di donne?
Ho capito che volevo fare il cinema durante l’adolescenza e già allora avevo in mente di fare i film che non vedevo, con i personaggi che non vedevo. Ma allora sapevo solo che volevo lavorare nel cinema, avevo la convinzione che ci fossero delle cose da esplorare. Sono diventata regista da adulta, quando ho scritto una sceneggiatura ed è stata accettata. È un desiderio nato durante l’adolescenza, legato a un momento di trasformazione. E del resto tutti i miei film parlano di momenti di trasformazione, quale che sia l’età.

La causa femminista nei suoi film è spesso associata alla causa Lgbt+ e a volte anche a quella razziale. Crede che siano battaglie che vanno portate avanti assieme?
Sì, perché è in tutti i casi è lotta di classe. Perché non si riproduca nelle associazioni femministe una logica di dominazione, dove sono le donne bianche e borghesi a dominare altre donne. Del resto nella storia del femminismo c’è sempre stata l’idea di portare avanti queste cause insieme, in modo sinfonico, e così hanno storicamente fatto i movimenti lesbici, hanno sempre preso in considerazione la causa più generale.

In “Petite maman” ma anche in tutti i suoi film il tempo è trattato in modo particolare, si percepisce a volte una sospensione, a volte uno sfasamento. Qual è il suo modo di intendere, di giocare con il tempo, nel cinema?
Penso ad ogni film come a una piccola macchina per viaggiare nel tempo. L’arte del mettere in scena è una piccola architettura temporale. Il tempo “magico” del cinema l’ho sfruttato pienamente in “Petite maman”, ma questa magia ho sempre cercato di esercitarla, anche se a volte era un segreto tra me e il film. In “Petite maman” mi è piaciuto molto poter giocare ancora di più con l’idea di film come viaggio tempo intimo.

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  • Aimara |

    Quando due qualità, una vera giornalista e una regista autentica si incontrano la scrittura si fa corpo, ed è corpo politico (da intendersi come dovrebbe essere la parola: a servizio della vita pubblica, cioè delle persone). Grazie Céline, grazie Lara.

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