Siamo o facciamo il nostro lavoro?

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Più di 300 milioni di persone nel mondo soffre di disturbi mentali legati al proprio lavoro, tra i quali esaurimento, ansia, depressione e stress post traumatico. È quanto emerge da un’indagine dell’OMS, ripresa recentemente dal Parlamento Europeo. Se si immagina di aggiungere a questa cifra il malessere psicologico che non sfocia necessariamente in patologia, verrebbe da asserire che lavorare di certo non fa bene.

Non a caso – ancora oggi – a quest’attività è spesso associata l’idea che sia una prigione, una fatica, un deterioramento del proprio benessere.
Sono poche le persone davvero soddisfatte e felici di ciò che fanno e della realtà organizzativa in cui lo fanno. Tanto che l’Italia detiene un triste primato: solo il 4% dichiara di essere “coinvolto” nel proprio lavoro, contro una media globale del 21%. È quanto emerge dal report “State of the Global Workplace” di Gallup, che evidenzia come la geografia della soddisfazione lavorativa sia comunque molto ridotta ovunque la si consideri nel mondo.

Una variabile che spesso non si tiene presente in questa equazione, può essere riassunta da una domanda: si è o si fa il proprio lavoro? “Sono un manager” o “faccio il manager”? Perché alcune persone prediligono la prima formula – a prescindere da quale lavoro svolgono – mentre altre la seconda? E soprattutto, quali sono le implicazioni e le conseguenze – anche e specialmente – sulla propria salute psicologica?

Una persona orientata al fare è tipicamente quella che asserisce «siamo qui per lavorare». Frase alla quale spesso aggiunge: «e non per divertirci».
Chi si cala nel sono, invece, ha un rapporto maggiormente identitario con la propria professione o il proprio ruolo. Spesso non pondera nemmeno la questione: c’è come una spontanea e naturale inclinazione in questa direzione.

Siamo di fronte a due posizioni dalle quali derivano visioni, comportamenti e approcci diversi. Tutti elementi che – se non gestiti – rischiano di minare la collaborazione e la tenuta dei team e dell’intera organizzazione. Rispetto al “faccio” o al “sono” il mio lavoro, cambiano infatti motivazione e ingaggio, nonché rapporto con il proprio tempo, il senso e le ragioni dello stare e del lavorare insieme.

Una persona che fa il suo lavoro tende a suddividere la sua vita in compartimenti il più possibile stagni. Da un lato la vita personale, dall’altra quella professionale, o, addirittura: da una parte la vita, dall’altra il lavoro. Come se quest’ultimo non facesse parte della prima e si cominciasse a vivere davvero solo dopo le 18, nei weekend o nelle festività.

Chi è il proprio lavoro ha invece un rapporto molto più fluido con la sua attività lavorativa e apprezza quelle realtà organizzative che permettono di gestire in maniera autonoma i confini, che siano di tempo o di spazio. Siamo di fronte a una persona che non divide la sua vita in compartimenti, ma lascia fluire. Individui che vivono la propria professione come qualcosa di inscindibile da ciò che sono, includendo dunque il lavoro nella loro idea di benessere personale.

Di per sé, entrambe le posizioni – sono e faccio – sono lecite: dipende da ciò che fa stare bene chi si ritrova in una piuttosto che nell’altra. Fare il proprio lavoro pone però di fronte al rischio di sentirsi spezzati: se la vita e la felicità cominciano dove finisce la propria giornata lavorativa, alla lunga possono generarsi vissuti di ansia, stress e forte insoddisfazione. Anche il sono può però deteriorarsi: se tutto è mescolato e indistinto, si può incorrere nel rischio di farsi fagocitare e travolgere. La posizione dell’essere il proprio lavoro necessita infatti di molta autodisciplina, consapevolezza e maturità alla base. Anche e soprattutto psicologica.

Il lavoro, di per sé, non genera malessere. Lo genera nel momento in cui non sono garantite le condizioni affinché le persone possano relazionarsi alla propria attività professionale nel rispetto di quella che è la loro preferenza: essere o fare. A voi la scelta.

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  • Elena Fossati |

    Interessante il detto : “Fai della vita il tuo lavoro e del tuo lavoro la tua vita”, perchè è da ben interpretare!

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