Nel 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, preoccupata per gli effetti di un uso eccessivo dei media sullo sviluppo mentale e fisico dei bambini, pubblicava rigide linee guida nelle quali invitava i genitori a limitare il tempo trascorso dai figli davanti a smartphone, tablet e consolle. Era solo il 2019, ma sembrano passati secoli. Quelle indicazioni si collocavano all’interno di un ampio dibattito sulle tecnologie digitali, su tempistiche di utilizzo, conseguenze per il benessere psicologico e la crescita, rischi, regolamentazione e limiti. E ora? Dove sono finite queste riflessioni? Sembrano essere sbiadite, scivolate in secondo piano (perché altre sono le priorità), come molti altri discorsi legati alla prevenzione. Eppure, ho l’impressione che in questo contesto collettivo così mutato, non solo acquisiscano una nuova centralità, ma siano anche di incalzante attualità.
Con la pandemia abbiamo fatto un balzo improvviso e inaspettato in un futuro distopico nel quale l’uomo non ha altro modo per difendersi dalla natura che chiudersi in casa e affrontare ogni difficoltà con la complicità e il supporto delle tecnologie. Avendo compreso che tutto è possibile attraverso uno schermo – lavorare, studiare, giocare, socializzare, acquistare ma anche rilassarsi e spegnere le emozioni “fastidiose” – abbiamo smesso di controllare per quanto tempo, per quale utilizzo, in quali orari, se a pranzo o nel cuore della notte, da soli o con gli altri. Iperlavoro, abbuffate di Netflix e videogiochi sono diventati la norma. Ci siamo abituati a non porre limiti: uno, due, tre schermi alla volta, in una esplosione di multitasking. Ce ne accorgiamo, lo vediamo con chiarezza anche nei bambini e nei ragazzi, ma ci sembra un processo inevitabile e inarrestabile, dunque facciamo finta di niente.
Qualcosa è cambiato, però, anche in noi. Se per lungo tempo ci siamo ubriacati di fiducia nel controllo, nella progettazione e nella prevedibilità delle cose, all’improvviso abbiamo capito che si trattava di una grande illusione. Ci siamo scoperti animali tra animali, il corpo esposto a virus e guerre ci ha ricordato che basta poco per far saltare ogni nostro piano. Se il futuro si è annebbiato, la quotidianità si è complicata. Molte routine sono saltate, le giornate scorrono in un susseguirsi di nuove consuetudini che ci impediscono di mettere il pilota automatico (e comportano stress): per frequentare la scuola, lavorare, accedere ad un servizio, seguire una conferenza o anche solo per andare in palestra, si sono dovute imparare nuove regole e nuove procedure (di iscrizione, prenotazione, ingresso, utilizzo, etc). Questa caduta delle illusioni e questa perdita di routine acquisite, hanno contribuito a condurci fuori dall’area di sicurezza del “già noto e prevedibile” costringendoci a fare i conti – ancora oggi – con uno stress di fondo che si manifesta con stanchezza, ansia, disattenzione, demotivazione, tristezza, irritabilità. Si tratta di un processo collettivo, non di questioni circoscritte a specifiche situazioni individuali.
In queste condizioni di ipocontrollo e maggiore vulnerabilità/stress, come cambia il discorso sulle tecnologie? Sappiamo che, dato il maggiore utilizzo, i pericoli della rete si sono moltiplicati: odio, cyberbullismo, adescamenti di cui i minorenni possono essere vittima, sono in costante aumento anche nel nostro paese. La rilevanza di queste minacce non deve però farci trascurare quella del sovraccarico cognitivo. Fateci caso: quando siete davanti ad uno schermo state sempre facendo qualcosa e la vostra mente è sempre occupata su più fronti. Gli schermi ci costringono ad una continua esposizione ad informazioni, richieste e sollecitazioni, alla pressione e al giudizio degli altri. Quanto possiamo sopportare? Quanto può reggere il nostro cervello questo sovraccarico? E soprattutto, quanto possono reggerlo bambini e adolescenti? “Too much to handle”, troppo da gestire, scrivono alcuni ricercatori. C’è un limite alle informazioni che la nostra memoria può processare, alla nostra capacità di essere costantemente impegnati in un compito, e quando lo superiamo, diventiamo inquieti, irritabili, annebbiati, inflessibili e reattivi. Abbiamo l’impressione di non riuscire a pensare chiaramente. Ogni più piccola decisione e ogni minima richiesta ci appaiono un “accollo”, direbbe Zerocalcare.
Il multitasking, poi, ci disabitua alla concentrazione e alla capacità di prestare attenzione in modo continuativo (Korte, 2020), indispensabili per comprendere cosa proviamo e ascoltare gli altri. L’esposizione alle inarrestabili sollecitazioni del mondo esterno ci impedisce di attivare quel “default mode network” del cervello (modalità di pensiero “di default” che si innesca quando non siamo focalizzati sul mondo esterno o impegnati in compiti cognitivi) che favorisce l’introspezione, l’immaginazione, ila memoria autobiografica e i pensieri rivolti al futuro. “Lo tsunami delle informazioni, getta nell’inquietudine il nostro sistema cognitivo” e limita la “saldezza dell’essere”, perché “l’addizione e l’accumulo scacciano le narrazioni” di sé – scrive Byung-Chul Han nel suo ultimo libro “Le non-cose” – frammentando la nostra vita e privandola di ancoraggi preziosi.
Se non possiamo eliminare la sofferenza dal nostro orizzonte storico, possiamo almeno impegnarci ad evitare quel sovraccarico e quell’entropia che alimentano confusione e inquietudine. Limitare l’uso contemporaneo di più schermi, deselezionare la possibilità di ricevere avvisi mentre lavoriamo, evitare di chattare su più fronti, trattenersi dal controllare email e social a tavola o mentre giochiamo con figli e nipoti, ne sono solo un esempio. A volte bastano piccoli gesti per disintossicarsi dalle abitudini acquisite, per riconoscere a noi stessi il diritto ad “una cosa alla volta”, ad andare (un po’ più) lenti, al mind wandering. Come adulti, possiamo dare l’esempio di un uso più contenuto delle tecnologie, proponendo qualche volta in più un incontro di sguardi o uno scambio fisico-emotivo come alternativa ad uno schermo.
Mai come in questo momento storico bambini e adolescenti hanno bisogno di ancore e di ancorarsi, dunque di potenziare la capacità di prestare attenzione, concentrarsi, apprendere, comprendere se stessi, gli altri e il complesso mondo che li circonda. Per fare esperienza, conoscere, ricordare, stabilizzarsi, hanno bisogno di adulti capaci di scegliere prassi più impegnative. Non sarà facile e sarà importante iniziare da se stessi, recuperando il tempo per una pausa, per qualche scampolo di noia, per vivere con i cinque sensi e, ogni tanto, portare la mente tra le nuvole.
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