È morta Letizia Battaglia, una delle massime voci della fotografia degli ultimi 50 anni, non solo italiana, ma internazionale.
Aveva 87 anni ed era malata, eppure la notizia continua a parermi in qualche modo paradossale, un ossimoro: era un vulcano e non ci si capacita che ora si sia spento.
Le si era appiccicata addosso l’etichetta di “fotografa della mafia”, che portava con insofferenza, da quando, responsabile del team fotografico del quotidiano comunista “L’Ora” dal 1974, aveva documentato per anni la seconda guerra di mafia, che fece della Palermo tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 il tragico palcoscenico di un’impressionante sequela di omicidi attraverso i quali i corleonesi di Totò Riina spazzano via tutti coloro che, mafiosi di famiglie e clan rivali, poliziotti, magistrati, giornalisti, uomini politici, si oppongono al loro disegno egemonico su Cosa Nostra. Letizia si sposta per la città al suono delle sirene della polizia (spesso in un giorno si verificavano più omicidi), arriva sulla scena del crimine e in pochi attimi, facendosi largo tra i cordoni della polizia, la folla dei curiosi, i colleghi reporter, scatta immagini concitate, intense, partecipi, riprendendo i cadaveri crivellati di colpi, il sangue sull’asfalto, le maschere di dolore dei congiunti o dei semplici spettatori di quella smisurata efferatezza.
Diverse sue foto sono impresse a fuoco nella memoria collettiva e sono divenute simboli di quella stagione, come il cadavere di Piersanti Mattarella estratto dall’auto dalla moglie e dal fratello Sergio, l’attuale Presidente della Repubblica (6 gennaio 1980), l’incontro tra Giulio Andreotti e l’esattore mafioso Nino Salvo nel 1979 –uno scatto vent’anni più tardi usato come prova d’accusa nel processo per mafia contro Andreotti-, l’arresto del boss Leoluca Bagarella, ma le sue immagini, oltre a raccontare il dilagare dell’ondata di sangue, odio e sofferenza per le vie di Palermo e sui volti delle persone, celebrano anche la resistenza e il coraggio di tutti coloro che, nell’esatto e antiretorico significato della parola di cui forse ci vergogniamo, sono eroi e non si piegano, dal comandante della squadra mobile Boris Giuliano a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, alla madre di Peppino Impastato, a tutti i cittadini anonimi che si impegnano nel loro quotidiano, forse silenziosamente ma fermamente, a non accettare la logica della violenza.
In alcune situazioni Letizia scelse di non scattare: non andò a Capaci (23 maggio 1992), al cratere scavato dalla bomba che uccise Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tutti gli agenti della scorta, preferendo dirigersi verso l’ospedale dove stavano portando le vittime; due mesi più tardi era invece a via d’Amelio dove morì Paolo Borsellino, ma la sua macchina fotografica restò muta.
Il 1992 segna una cesura nella vita della Battaglia: le morti dei due giudici simbolo della lotta alla mafia si assommano a dolori privati (la morte della madre e del dottor Francesco Corrao, lo psicanalista che l’ebbe in cura e fu per lei come un secondo padre) e alla fine di un’importante storia d’amore, spingendola ad abbandonare la Sicilia.
Ma a Palermo ritornerà presto, perché un amore appassionato e un altrettanto passionale odio la uniscono visceralmente alla sua città, di cui diceva di amare la puzza, quel miscuglio di squallore e grandezza, di miseria e nobiltà da cui lei non poteva in nessun modo staccarsi.
Tutta la fotografia, meglio, tutta la vita di Letizia Battaglia può essere sintetizzata con il titolo usato per una grande retrospettiva tenutasi al MAXXI di Roma nel 2017: Per pura passione. In lei mai il gesto di fotografare è un atto documentario oggettivo, distaccato, al contrario fame di vita, un traboccare di energia e una generosa, prepotente dismisura animano le sue foto, che aggrediscono il mondo e catturano chi le osserva dicendogli: “queste cose ti riguardano, queste persone sembrano lontane, ma sono come me, come te!”.
Letizia Battaglia ha raccontato tante altre storie oltre a quelle di mafia: tra il 1985 e l’89 svolge volontariato alla Real Casa dei Matti, l’ospedale psichiatrico di Palermo, stabilendo un rapporto personale con diversi pazienti, che le permetteranno di fotografarli, traendone un reportage splendido e dolente, molto poco ricordato.
Ma non ci sono solo Palermo e la Sicilia, il suo vastissimo archivio ospita foto dei numerosi viaggi da lei compiuti, molti in compagnia di Josef Koudelka, amico e maestro (“il più grande fotografo del mondo” diceva di lui), che Letizia conobbe grazie all’attività con l’agenzia “Informazione fotografica”, da lei fondata a Palermo assieme al fotografo e compagno Franco Zecchin; vediamo scorrere l’amata Africa: Mauritania, Tangeri, Zaire, Madagascar; la Turchia, la Grecia, l’India, dove trascorreva diversi mesi la figlia e fotografa Shoba, ma anche Corsica, Sardegna e i paesi del Nord Europa. I soggetti sono giovani, bambini e ragazzi adolescenti, soprattutto donne, e la vita quotidiana della gente semplice, spesso povera; la sua fotografia è popolare nel senso più, vorrei dire magnanimo del termine: niente idealizzazione da “poveri ma belli”, ma una profonda fraternità con le persone, che le permette di sentire il pulsare della medesima vita nella sua contraddittorietà sotto qualunque cielo.
Questa empatia aveva una sofferta radice personale nella sua biografia, degna di un romanzo dostoevskiano: sposa sedicenne un uomo più grande, da cui avrà in pochi anni tre figlie. È un matrimonio d’amore, ma nella Sicilia degli anni ’60 è impensabile che una sposa e madre possa pensare a qualcos’altro che alla casa e alla famiglia, invece Letizia accumula insoddisfazione che diventa a poco a poco sofferenza: ha bisogno di altro, di uscire, studiare, conoscere. Si ammala: crisi di panico, depressione, cliniche; la salvezza le arriverà intraprendendo un percorso di analisi con lo psicanalista freudiano Francesco Corrao.
Qui è la svolta della sua vita: incontra un nuovo amore e prende la decisione di abbandonare il marito – siamo negli anni ’60 in Sicilia! – e di trasferirsi con il compagno e le figlie a Milano per dedicarsi al giornalismo, dove, a 35 anni, scopre la fotografia, imparandola da autodidatta, sul campo, stufa di sentirsi chiedere in redazione, quando portava i suoi pezzi, e le foto?
Ci sarebbe molto altro di cui raccontare, perché la sua bulimia di vita è incontenibile: il suo amico Goffredo Fofi diceva “Letizia è troppa”.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si dedica alla politica, contribuendo alla cosiddetta primavera palermitana, in una città che cercava di scrollarsi di dosso l’odore del sangue per riprendere a vivere: consigliere comunale per i Verdi, assessora a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando, nel 1991 deputata all’Assemblea Regionale Siciliana per La Rete, poi vice presidente della Commissione Cultura.
Prima donna europea a ricevere, nel 1985 ex aequo con Donna Ferrato, il prestigioso Eugene Smith Grant, cui seguiranno altri autorevoli riconoscimenti, mostre in musei ed enti internazionali, libri e interviste, documentari sulla sua vita, ultimo dei quali Shooting the mafia (2019) dell’inglese Kim Longinotto, Letizia Battaglia era ormai un personaggio popolare e un punto di riferimento, per la città di Palermo e la Sicilia, per i giovani, aspiranti fotografi e non solo, e per il mondo dell’arte, come testimonia lo splendido omaggio che le rendono i Masbedo in Videomobile (2018), dove Letizia racconta alla piccola Aurora di deici anni quel che la mafia ha fatto alla città di Palermo, avendo dietro le spalle un manifesto che riproduce i famosi affreschi del Trionfo della morte di Palazzo Abatellis.
A testimoniare la sua generosità e capacità di pensare al futuro e alle nuove generazioni, nel 2017 inaugura a Palermo, nei cantieri culturali della Zisa, il Centro Internazionale di Fotografia, che, con la sua direzione, ospita mostre, incontri e dibattiti, una scuola di fotografia e un archivio storico di oltre 150 fotografi, professionisti e amatori.
Per conoscere meglio la sua figura eccezionale, è uscito due anni fa un libro scritto a quattro mani in dialogo con Sabrina Pisu (Mi prendo il mondo ovunque sia, Einaudi, Torino 2020), leggendo il quale si capisce che, anziana e famosa, Letizia si sentiva sempre una ragazzina, come quelle che amava fotografare perché: “quando incontro la ragazzina imbronciata, sulla soglia dell’adolescenza, magra, con le occhiaie, i capelli lisci, sono io.”
Mi sembra giusto ricordare che pochi giorni fa è mancato Francesco Radino, un maestro della fotografia italiana, non conosciuto dal vasto pubblico come meriterebbe. Vi consiglio di dare uno sguardo al suo sito per intuirne la grandezza.