Piangere durante una riunione: l’emozione imprevista che ci tiene insieme

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Le prime pagine dei giornali in questi giorni hanno due grandi titoli: “La fine dell’emergenza”, “L’inizio della guerra”. Sta finendo, o così speriamo, un’emergenza sanitaria che ha tenuto in scacco il mondo per due anni. Una crisi inaspettata per molti, qualcosa di cui ci siamo sentiti in parte responsabili ma soprattutto vittime, in cui ci è sembrato di avere scelta in alcuni casi e in altri no: una “guerra contro un virus” che ci ha allontanati fisicamente ma anche fatto sentire uniti, come popoli del mondo, nella nostra capacità di fare fronte a un bisogno comune e di rispondervi con la nostra intelligenza collettiva.

Nessuno avrebbe potuto arrivare a questo punto da solo.

Con un tempismo drammatico, inizia la guerra umana. Possiamo quasi sentire le bombe cadere e adesso, forse, ci rendiamo conto di cosa vuol dire l’accadere di un evento straordinario nella quotidianità di popolazioni pacifiche, che come noi si aspetterebbero solo di andare ogni giorno a scuola e al lavoro, e che all’improvviso non possono più farlo perché rischiano la vita. Ma non è un virus a minacciarle: è la volontà di altri esseri umani. E’ una scelta razionale e ragionata, e riccamente motivata. Non sappiamo ancora bene perché in tanti sono morti per il Covid, non siamo certi della sua provenienza. Sappiamo forse perché in moltissimi sono morti e muoiono per le guerre, di cui forse non ci domandiamo abbastanza la provenienza?

Che cosa è successo oggi, ne stiamo parlando nelle riunioni?

Chi stava già lavorando nel 2001 ricorda il senso di straniamento nel continuare a lavorare con in sottofondo le immagini delle torri gemelle che bruciavano: quello che succedeva ci era emotivamente molto vicino, ma non abbastanza da farci interrompere le nostre quotidiane attività. I grandi eventi che ci coinvolgono, riguardano e stravolgono corrono spesso sullo sfondo della nostra società, quasi troppo enormi per essere notati, come la trama di un tessuto che ci avvolge interamente, diventando invisibile.

Poi succede che una persona si mostri che piange via Zoom, durante una riunione con persone di tutta Europa. Non spegne la telecamera, non lascia la stanza virtuale, anzi: accende il microfono e spiega che è perché ha paura per le persone che ama, che piange perché c’è una guerra. La notizia che colpisce tutti e genera uno spontaneo minuto di silenzio non è la guerra, di cui si sapeva già, ma è il suo dolore manifesto.

Noi portiamo in giro tutte le nostre emozioni ogni giorno, nascoste in una tasca della camicia vicino al cuore, ma a volte la fatica di tenerle giù si rivela insostenibile, allora le facciamo uscire e le mostriamo agli altri, sperando che le maneggino con cura. Il pianto della collega polacca ci ha mostrato la guerra, i neuroni specchio che ci condannano all’empatia ci hanno inumidito gli occhi, e per un momento siamo stati tutti Europei, tutti sotto attacco, tutti addolorati – più nessuno da solo dietro alla sua telecamerina.

Noi comunque non smettiamo mai di lavorare: non abbiamo smesso un solo giorno da quando è iniziata la pandemia, non smetteremo adesso: siamo soldatini del Generale Lavoro, sappiamo che la ruota deve continuare a girare, forse anche per far passare questo momento, per costruirne di nuovi, di migliori. Il lavoro è il luogo in cui ci incontriamo, è la fonte e il punto di arrivo di tutti i compromessi che ci tengono insieme, ed è anche il filtro che si fa stretto intorno a emozioni altrimenti travolgenti: lacrime che restano in tasca finché si può, ma anche gioie, paure, desideri e dolori. Ma quando uno di noi si mostra senza la maschera, la sua verità chiama le nostre: lei ha il coraggio di piangere anche per il mio dolore, e forse sono queste emozioni che fanno di me un buon soldato, o forse no, ma sicuramente sono queste emozioni che fanno di noi un esercito che sa riconoscersi al primo sguardo e, contro ogni pronostico, continua a lavorare insieme.

Con il nostro lavoro rispondiamo alla guerra, alla solitudine e alla paura. Con il nostro lavoro ogni giorno ci presentiamo agli altri e li incontriamo, riconoscendoci come specie umana. Altrimenti che senso avrebbe tutto questo?

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