Se la scrittura s’impasta con il teatro e la pittura: contaminazioni da leggere

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Avere una musa di fuoco” è l’opera prima di Piero Somaglino, editore e fondatore di Seb 27, casa editrice indipendente appena entrata nel trentesimo anno di vita. Esce sul finire del 2021 per la collana Tamburi di Carta, con la postfazione di Alfonso Cipolla ed è un libro sorprendente, che impasta la scrittura con il teatro ricreando una dimensione in cui l’arte è a tutto tondo.

Poco meno di 250 pagine ripercorrono le avventure di Jean Got, che ne è il protagonista. Eppure, sin dalle prime apparizioni, al lettore come alla lettrice è chiaro che la prospettiva più accattivante, quella più autenticamente innovativa, abbia i lineamenti di Elaine. È lei che raccoglierà l’inquietudine del compagno, masticando la sofferenza intima per la miseria e per il dolore degli altri nella quale si specchierà, riconoscendovi un sentimento proprio.

Ma c’è altro. La visione di Elaine è più ricca, la versione di lei ha di più. Somaglino le riconosce una percezione inedita e lucidissima: “Gli ultimi degli ultimi erano… le ultime, diceva pensando alle madri e alle loro figlie la cui nascita stonava da sempre come una iattura e il cui futuro spesso non era altro che un impiccio”.

Il tema è potente: non solo l’ingiustizia, ma l’ingiustizia tra i sessi, il potere che divide gli uomini dalle donne e tutto divora. Lo sgomento della condizione di essere una femmina che travalica lo status sociale e si rivela “una costante comune su cui il censo poteva tutt’al più infierire con ulteriore disprezzo”.

Elaine è modernissima anche nell’illuminare la vita proprio lì, nel punto esatto in cui si biforca. La casta afflizione del convento o il dignitoso meretricio delle scene, la santità o l’arte, essere mogli o prostitute, giumente rispettabili o vacche da bordello: la condizione della donna è descritta magistralmente in queste pagine eleganti, eppure feroci. Jean viaggia, scopre mondi nuovi e nuove relazioni, vive e lo fa dentro a una dimensione fortemente allegorica. I luoghi che attraversa, i territori dapprima inesplorati sono sfide, limiti e scoperte che faranno del ragazzo un uomo e della sua storia la nostra Storia.

I temi sono importanti e suggeriscono riflessioni profondissime sul mondo di ieri e su quello di oggi. L’ingiustizia che schiaccia le masse, il colera a Napoli, interi villaggi di schiavi contadini: sono questi dolori ad agitare le pagine del romanzo. In quello abitano e da quello risuonano fragori antichi che il lettore scoprirà essere esattamente sovrapponibili alle inquietudini moderne. Oggi come ieri, un altro colera tutto ha travolto, specie per i più sfortunati, per i disperati di ogni luogo.

La storia dei protagonisti è in fondo un viaggio, per longitudini e latitudini remote. Al timone le braccia giovani e incerte di Jean sono mosse da una passione bruciante: quella musa di fuoco che lo porterà a lasciare le valli e a viversi nel mondo. Dalla prima fuga a Torino dove si unirà alle Marionette Lupi fino all’approdo ultimo, la compagnia anglosassone delle Holden’s Imperial Marionettes.

È qui che la scrittura di Somaglino sfiora il teatro e subito vi si tuffa, raccoglie per i suoi lettori i sapori e gli effluvi più autentici di quell’arte magica. Sono pagine che odorano come le tavole di un palcoscenico, a metà tra saggio e romanzo storico.

“Avere una musa di fuoco” è certamente molto più di un racconto e la citazione che riporta alla mente il coro dell’Enrico V è il filo dal quale il libro si srotola e si dipana. A tenere il bandolo è sempre Elaine: sarà lei a svelare al compagno l’eternità nelle opere di William Shakespeare che tradurrà per lui.

Le tournée in Europa e quella nel Sud dell’America regaleranno a Jean una vita libera, piena e profonda e perciò non senza legami. Le vicende dei protagonisti incroceranno eventi e personaggi realmente esistiti, in un equilibrismo perfetto tra preziosa ricostruzione e purissima creatività. La figlia di Thomas Holden sarà guida e presagio, per Jean come per il lettore, in bilico tra solidità e leggerezza, come solo i funamboli sanno stare.

L’originalità del lavoro di Somaglino è forse proprio nella sua autenticità, un’opera che tocca le corde più nascoste, rievoca cantilene di bambini, storie lette alla luce fioca di una candela, ma anche traiettorie spericolate e viaggi avventurosi. Di mezzo, l’oceano, le paure e la curiosità di chi lascia un porto sicuro, con la consapevolezza che non gli sarebbe bastato. La piccola storia di chi affronta tempeste per raggiungere infine i luoghi cui era destinato è una parte, nemmeno infinitesimale, della grande Storia dell’uomo.

Il ritmo è fluente, quasi musicale, la costruzione del narrato è artigianale nel senso più nobile dell’aggettivo. Piero Somaglino tesse qualcosa di vivo, attuale e insieme eterno, e lo fa con una scrittura cristallina, nitida, pulita, scevra da qualsiasi vezzo, un esercizio cui non siamo abituati ad assistere da che il mondo ha sacrificato al commercio ogni espressione di sé.

Anche ne La ragazza di Hopper la musa è presenza prepotente, ma la citazione qui rimanda a un altrove contemporaneo. E non è il teatro, ma la pittura, il vero approdo del nuovo romanzo di Fabio Bussotti che torna a raccontare le avventure di Flavio Bertone. Il libro esce alla fine del 2021, per Mincione edizioni. Titolo e copertina sono più di una prefazione. Come già ne “L’invidia di Velázquez” del 2008, Bussotti attinge dalla tavolozza dell’arte figurativa, sul cavalletto la tela svelerà uno dei maggiori pittori del Novecento.

Sin dalle prime pagine il lettore è come catapultato in una suggestione. Sarà il protagonista – che con lo scrittore condivide certamente ben più delle sole inziali – a condurlo per una Roma attualissima dove i personaggi fanno i conti con i demoni della vita moderna, in primis la pandemia.

Il libro corre attraverso due canali temporali. E prima di addentrarsi nell’Italia dei giorni nostri, soffocata da una mascherina salva-vita, apre uno spaccato che risale al secolo scorso. Negli Stati Uniti, a Truro, è una domenica di settembre, del 1963, quella in cui Brian O’Doherty va a trovare Edward Hopper nella sua casa di Cape Cod, nel Massachusetts. L’incarico l’ha avuto dal direttore del Whitney Museum. Proteso a metà, tra una chiacchierata e un’intervista, sarà il primo dei personaggi che il lettore incontrerà ad accompagnarlo fin dentro le pieghe di una delle opere più famose dell’artista: “Intervallo”.

La donna, seduta da sola in prima fila, dentro a un cinema vuoto, potrebbe essere chiunque. Brian scoprirà che nasconde un segreto. Si chiama Nora ed è morta. Le descrizioni che percorrono il libro sono una piacevole trasposizione delle scene e della luce del pittore americano cui anche Hitchcock si ispirò per i suoi meravigliosi film e sembrano fissate su carta: “Il cielo era azzurro cobalto. In lontananza, verso North Truro, il sole imbiancava il faro e la spuma delle onde della Baia di Cape Cod. Un biancore abbagliante, paragonabile alla fronte di Moby Dick o al muro di una casa americana in un quadro di Hopper. Una Buick celeste del ‘56, sbucata da chissà dove, si accostò”.

Le pagine si illuminano di colori che hanno la spontaneità della natura, e ciò contribuisce a rendere brillante la narrazione. Il merito indiscusso di Bussotti è quello di non indugiare sul superfluo e dunque di non stancare il lettore. Anche questo romanzo si muove su due piani artistici e lo fa in maniera disinvolta.

Quello che qui si dipana sotto agli occhi di chi legge è un giallo. Fortissima la capacità di dire, di descrivere, fatti, ma anche persone che infine compongono il gruppo che è famiglia, clan. La comunità prende corpo e il racconto diventa visione, quadro. La società che si costruisce pezzo per pezzo è puzzle che ha connotazioni precise: è maschilista, le presenze femminili sono bersaglio di battute sessiste e il libro svela prospettive. È così che lo scrittore pare volerci suggerire l’invito a un’osservazione critica: facciamo attenzione, le volte in cui una donna è ridotta al suo seno o ai suoi genitali l’implicazione sessuale è evidente. Non può dirsi che accada altrettanto all’uomo che, al massimo, è identificato con il suo naso, in un’accezione che riporta alla mente le maschere o la parodia, ma a cui manca del tutto ogni accenno alla mercificazione sessuale.

Da “Intervallo” all’hotel D’Azeglio di via Cavour, dove si è consumato l’omicidio di Nora Rednic – una ragazza bella, profondamente sola come le donne di Hopper sanno essere – quel fatto di cronaca riporterà, inspiegabilmente e non senza dolore, il commissario Bertone alla vita. Accadrà nel momento esatto in cui il protagonista pensava di essersi ripiegato per sempre nell’alcol, devastato dal tentativo di scacciare i fantasmi dei vivi e dei morti intento ad evitare il viaggio fuori da sé.

Il commissario è, potremmo dire, l’anti Jean, il personaggio di Bussotti si isola, paralizzato, come molti di noi che dalla pandemia hanno imparato la reclusione e il distanziamento, il peso della sopraffazione. Anche questo libro tocca temi importanti. Tra tutti, la violenza domestica. La storia lascia intravedere verso quali abissi quegli abusi possano spingere, dice senza troppi giri di parole che bisogna stare attente perché alla fine del tunnel spesso la luce è il faro freddo di un tavolo mortuario.

Due omicidi, due vittime e molte figure intorno, come nella scena a teatro ognuna guadagnerà progressivamente l’uscita, rendendo infine il senso completo di ciò che l’intervallo lasciava solo immaginare.

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Titolo: “Avere una musa di fuoco”
Autore: Piero Somaglino
Editore: SEB 27
Prezzo: 16,00 euro

Titolo: “La ragazza di Hopper”
Autore: Fabio Bussotti
Editore: Mincione
Prezzo: 16,90 euro

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