Lavoro ibrido, riunioni sempre più brevi rischiano di non farci “incontrare”

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Ci sono riti che compongono il nostro modo di lavorare che non sembravano particolarmente funzionali prima del Covid e che il Covid ha buttato per aria (“disrupted”, si direbbe in inglese) ma che rischiano di tornarci indietro peggio di prima. Se ne potrebbe fare una lunga lista, ma ce n’è uno che sicuramente occupa i primi posti: si tratta del temutissimo, dilagante e fondamentale rito delle riunioni. Incontrarsi per decidere, incontrarsi per “allinearsi”, incontrarsi per pensare… incontrarsi, insomma, come contrappunto necessario a un lavoro che non può essere solo individuale, perché solo nella dimensione collettiva scorre e si realizza, passando da idea ad azione e poi a progresso e misurazione. Incontrarsi anche per conoscersi, per convincere, per vendere, per valutare e per chiudere: le riunioni non riguardano solo persone all’interno della stessa azienda ma anche quell’altra componente essenziale all’economia che è collegare aziende diverse per diventare vicendevolmente clienti, fornitori, partner, stakeholder e fare, come si dice, ecosistema.

Nonostante la costante innovazione dei nostri strumenti di comunicazione, sono molte le cose che solo una riunione può far accadere.

In che modo la pandemia ha cambiato le nostre riunioni? Sappiamo che si sono spostate prevalentemente online – rompendo confini geografici e mentali e a beneficio dell’ambiente – e sono diventate più brevi: siamo ufficialmente scesi al di sotto dei canonici 60 minuti che già da tempo sembravano in parte sprecati. E’ sempre più comune essere invitati a meeting di 30 minuti e in molti all’inizio abbiamo pensato “era ora”. Ma che cosa stiamo sacrificando?

Intanto purtroppo la sintesi non ha premiato il benessere o l’equilibrio: riunioni di 30 minuti hanno voluto dire in molti casi più riunioni nello stesso giorno, sempre più spesso le persone chiudono un meeting dando segnali di averne un altro in immediata successione, senza soluzione di continuità. Succede semplicemente perché “è possibile”: perché il tempo digitale scandito dai nostri calendar indica spazi vuoti ovunque non vi sia qualcosa di segnato, appare come tempo perso. Ma c’è un rischio più sottile e meno misurabile, più invadente e meno visibile, che merita di essere considerato. Ce ne accorgiamo in questo periodo ibrido: la maggior parte delle riunioni continua ad avere luogo online, ma alcuni incontri di persona riprendono. In entrambe le modalità, l’accelerazione dell’esperienza è rimasta.

Spostandoci online, abbiamo rinunciato ai tempi morti: quelli in cui ci incontravamo senza agenda, aspettando gli altri ci dicevamo cose casuali che spaziavano in ogni ambito, l’inaspettato trovava posto nei ritardi e negli imprevisti e la relazione si consolidava lì. Ci mancavano, ci manca ancora quella parte: se ne scrive e si pensa a dei palliativi, le relazioni devono poter nascere anche a distanza e hanno bisogno di esperienze non programmabili. Non basta il mero contenuto produttivo: servono nuove abitudini, serve nei meeting un “tempo di non meeting”. Mentre ne diventiamo consapevoli e l’argomento produce abbastanza evidenze da tradursi in dati (per esempio, la recente ricerca del prof Wu dell’Harvard Business School dimostra che gli stand up meeting, per la loro logica di velocità e collaborazione, riducono la propensione al rischio e quindi la capacità di produrre innovazione), possiamo però prendere alcune misure per evitare che la logica acceso-spento del digitale divori la dimensione umana dei nostri incontri.

Per esempio, quante volte capita che siano diventate di 45 o addirittura di 30 minuti persino le proposte di incontri faccia a faccia con persone che vediamo per la prima volta? Può volerci così più tempo a raggiungerli fisicamente di quanto se ne passi con loro: eppure la prima volta che si incontra qualcuno, se si rinuncia subito al tempo di “non meeting” si rischia seriamente di sacrificare la relazione.

Voglio sapere quel che sai e non quel che sei, dice un primo incontro così breve.

E magari questo è il sottinteso di tutto il nostro lavoro (a volte sembra proprio che sia così), ma il calendario ce lo sbatte in faccia in un modo difficile da digerire. Il tempo, insomma, ci sta mostrando tutto il suo valore perché nel mondo ibrido lo vediamo attraverso orologi digitali che ne misurano la scarsità, illudendoci di usarlo meglio perché lo riduciamo in unità più piccole; ma, siccome non siamo robot, non è vero che alla fine produciamo di più. Soprattutto se produrre richiede di essere in relazione con altri.

Alla domanda “qual è la durata ideale di una riunione?” Google risponde con uno schema che equivale alla parola “dipende” e una lista di casi:

Regular team meeting (persone che conosci, con cui lavori regolarmente): 15-30 minuti
Meeting “one on one”: 30-60 minuti
Brainstorming meeting: 45-60 minuti
Strategy meeting: 60-90 minuti
Decision-making meeting: alcune ore, anche un giorno intero se la decisione lo richiede

La lista potrebbe continuare, perché vi sono molte diverse altre tipologie di meeting: è difficile avere una posologia esatta per tutte, ma il concetto di fondo è che il tempo è una variabile che non può essere inserita in automatico, senza pensare. Il tempo allocato a un meeting è un segnale di attenzione e un’indicazione di comportamento, e influenza la mentalità con cui quel meeting viene interpretato da chi vi partecipa. Ed è vero soprattutto adesso che le abitudini, dopo essere cambiate in modo traumatico in seguito a un’emergenza, potrebbero riassestarsi in modo nuovo dopo aver appreso da entrambi i mondi (quello di prima e quello di adesso) cosa funziona, cosa ci manca, cosa vogliamo e cosa possiamo fare per lavorare meglio insieme.

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