È notizia di qualche giorno fa che la V Commissione consiliare della Regione Abruzzo si avvii all’esame di un disegno di legge, voluto da Fratelli d’Italia, che mira al “riconoscimento e tutela del diritto alla sepoltura dei bambini mai nati“.
Sull’esistenza in Italia di cimiteri nei quali si trovano seppelliti i feti abortiti, all’insaputa delle donne, Alley Oop provava a fare chiarezza già a ottobre dell’anno scorso.
Lo scandalo scoppiava nella capitale: l’esistenza, al campo del Flaminio, di una distesa di tombe con inciso in bella mostra il nome e il cognome di quante avevano interrotto la gravidanza. Dati anagrafici completi. In totale spregio della volontà della donna e in barba alla legge, ai regolamenti e soprattutto in contrapposizione netta con le disposizioni sulla privacy (specie quelle sui dati particolari che una volta si chiamavano dati sensibili), a dare sepoltura cattolica al prodotto di quei concepimenti, erano Ama, ASL e l’ospedale San Giovanni, unilateralmente e senza alcuna richiesta da parte della donna che rimaneva ignara.
Oggi sono tutti a giudizio davanti al Tribunale di Roma, dopo l’azione promossa per il risarcimento del danno dai radicali italiani. Quella della sepoltura dei feti abortiti è, senza ombra di incertezza, pratica indebita e illecita. Chi ha fatto seguire alle parole la concretezza di un’azione giudiziaria oggi chiede un contributo economico per le spese processuali. La causa è ancora alle battute inziali, del resto, con la prima udienza celebratasi a settembre. Senza mezzi termini, per i radicali questa storia è “qualcosa di semplicemente inaccettabile in un Paese che voglia definirsi laico e che purtroppo continua ad accadere in diverse città d’Italia”. Chi si chiedesse se la pratica è geograficamente limitata, infatti, rimarrebbe a dir poco stupito dalla scoperta che di questi campi se ne trovano sparsi in tutta la penisola.
A leggere l’art. 9 del Regolamento Europeo sulla Privacy 679/16 e le determinazioni che in più occasioni il Garante ha prodotto sull’argomento, si rende manifesta l’enormità dell’abuso compiuto ai danni di tante, deprivate nel momento delicatissimo dell’interruzione della gravidanza del sacrosanto diritto alla piena tutela dell’anonimato e violate nell’intimità, esposte allo stigma sociale che ancora oggi l’aborto comporta.
E così, malgrado la pandemia, l’argomento resta al centro di un fuoco incrociato.
Lo scopo che si cela dietro norme come quella all’esame del consiglio regionale abruzzese è, inequivocabilmente, quello di sottoporre le donne a una forma tacita di tutela. Si intende sostituire alla loro volontà, con violenza, la volontà di terzi. E ciò malgrado ci si muova nel terreno impervio e scivoloso di una delle decisioni più importanti della vita umana che, di certo, non è in alcun modo delegabile.
Accadrà, infatti, che se dovesse passare quella riforma “non solo in presenza della formale richiesta dei genitori ma anche laddove questa risulti mancante” – pertanto anche contro la volontà delle dirette interessate – per ogni interruzione di gravidanza che sia compiuta prima delle 28 settimane di gestazione e dopo i 90 giorni, la ASL potrà disporre la sepoltura del feto. All’imposizione della tumulazione si aggiungerà – com’è evidente – anche l’ulteriore imposizione di una pratica di tipo confessionale.
Il disegno di legge – partorito da tre consiglieri uomini del partito di Giorgia Meloni, Mario Quaglieri, Guerino Testa e Umberto D’Annuntiis – non sembra però destinato ad avere vita facile. Il testo, infatti, è già stato aspramente criticato – oltre che dalle femministe e dai partiti dell’arco progressista, dalla CGIL – anche dalla locale Commissione Pari Opportunità.
C’è da aggiungere che quell’amministrazione regionale non è nuova ad attacchi contro le libertà delle donne, avendo – la sua maggioranza – già provato ad affondare la pillola abortiva. Così come per mano delle destre che governano in Umbria e in Molise, anche in Abruzzo si registrano gravissimi tentativi di confinare la somministrazione della RU486 all’interno degli ospedali vincolandola a procedure di ricovero, la cui necessità viene invece univocamente esclusa dal Ministero, con apposite Linee Guida, dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia e dall’OMS.
In conclusione, la questione pare (anche questa volta) del tutto ideologica. “I feti non sono rifiuti” è lo slogan che più campeggia nelle manifestazioni, sventolando su striscioni che sono il rovescio esatto delle bandiere innalzate dai pro-life. Frange di ultracattolici che l’aborto lo cancellerebbero, anche nel caso conclamato di rischio di vita per la madre. Posizioni estreme, fondamentalismi potremmo dire. Ma anche mistificazioni che negano possibilità. Ad esempio quella di un uso alternativo dei tessuti fetali. È del 2005 un parere del Comitato nazionale di bioetica che in relazione alla ricerca scientifica sul morbo di Huntington, proprio sull’uso di cellule estratte dai prodotti del concepimento, ha ritenuto che “il reperimento di tessuto fetale da interruzione volontaria di gravidanza e il suo utilizzo ai […] fini scientifici e/o terapeutici sono da ritenersi pratiche moralmente ammissibili […]”.
Ma c’è anche di più. Se solo, infatti, i sostenitori di queste tumulazioni imposte approfondissero fonti cui riconoscono un’autorevolezza che è quella del dogma, rimarrebbero quanto meno spiazzati.
La Congregazione della Fede in una recente Nota in tema di vaccini si spinge molto in là. Arriva a sostenere, quel documento, che “quando non sono disponibili vaccini contro il Covid-19 eticamente ineccepibili (ad esempio in Paesi dove non vengono messi a disposizione dei medici e dei pazienti vaccini senza problemi etici, o in cui la loro distribuzione è più difficile a causa di particolari condizioni di conservazione e trasporto, o quando si distribuiscono vari tipi di vaccino nello stesso Paese ma, da parte delle autorità sanitarie, non si permette ai cittadini la scelta del vaccino da farsi inoculare) è moralmente accettabile utilizzare i vaccini anti-Covid-19 che hanno usato linee cellulari provenienti da feti abortiti nel loro processo di ricerca e produzione”.
“La ragione fondamentale per considerare moralmente lecito l’uso di questi vaccini – si legge ancora nel documento – è che il tipo di cooperazione al male (cooperazione materiale passiva) dell’aborto procurato da cui provengono le medesime linee cellulari, da parte di chi utilizza i vaccini che ne derivano, è remota”. Ripulendo adesso il testo dall’uso – quanto meno opinabile – dei termini di bene e male (adoperati per stigmatizzare una scelta della donna intima e di profondissima libertà quale l’interruzione di gravidanza), non pare potersi dubitare che per la Dottrina della Chiesa la questione etica e del moralmente accettabile riguardi intanto l’aborto ma non anche – o non alla stessa stregua – l’utilizzo del materiale fetale. C’è insomma chi è più realista del re e, forse, neanche se ne rende conto.
Su questi spunti, le riflessioni se solo condotte con onestà intellettuale potrebbero rivelarsi infinitamente e imprevedibilmente feconde.