Come quando la si vede arrivando dal mare, Mogadiscio riluce “di un bianco fulgido, simile al bordo dentellato di una conchiglia” sullo sfondo di “Le stazioni della luna” (66thand2nd, pagg. 208, € 16), l’ultimo romanzo di Ubah Cristina Ali Farah. “Dopo il tramonto, le lanterne a petrolio agitavano le ombre dei passanti e piccoli bracieri di sepiolite scoppiettavano profumando la strada d’incenso e di carbone. Sotto la volta stellata, il quartiere splendeva di parole”: grondano bellezza e malinconia le numerose descrizioni che la scrittrice, nata a Verona da madre italiana e padre somalo, dedica alla città dove ha vissuto fino alla maggiore età e che ha abbandonato nel 1991, fuggendo la guerra civile. Così come quelle della vita capace di prosperare negli ambienti estremi che la circondano – “Quando smette di piovere forte, in boscaglia tutto si trasforma. Gli alberi spinosi si ispessiscono di foglioline smeraldo e tutta la terra è intessuta di fiori” – o le ricostruzioni dei costumi e delle feste somale che nel libro ha incastonato, forse nel tentativo di salvarne il ricordo, come fece Chinua Achebe per quelli nigeriani.
Con un vero talento nel vedere e fare vedere una bellezza che ai più sfugge (splendida la descrizione della giovane donna che si fa la doccia con un barattolo di latta), Ali Farah ha ambientato a Mogadiscio la storia di Ebla e di Clara, sua figlia di latte. Romanzo di formazione a cavallo tra due epoche e due culture, si apre con il ritorno nel Corno d’Africa di Clara e di suo fratello Enrico, dopo essersi rifugiati in un’Italia sconquassata dai bombardamenti in seguito alla sconfitta della Somalia fascista, nel 1941. Sono passati dieci anni e a Roma è stato affidato l’incarico di amministrare il Paese accompagnandolo fino all’indipendenza. Agronomo fedele alla madrepatria – che per lui è l’Italia e non la Somalia dove è nato e cresciuto – Enrico ha una fiducia tronfia nel progresso, nella presunta superiorità della sua cultura e nella propria buona fede. S’ingegna per trovare il modo di aumentare la produzione agricola da esportare.
Clara, col suo diploma magistrale e le sue convinzioni montessoriane, è invece tornata per essere maestra nella scuola dei bambini somali. Ma nella felicità del ritrovare il luogo dell’infanzia si insinua presto un malessere. All’inizio sono piccoli indizi, scricchiolii, discrepanze. Il progressivo constatare quanto il modo di vivere e di pensare della comunità italiana strida rispetto agli ideali che manifesta. Comincia col domandarsi se non sia necessario insegnare anche la lingua locale e nella lingua locale (che lei parla, non avendo da bambina mai smesso di frequentare di nascosto Ebla e i suoi figli). Catturano poi la sua attenzione osservazioni fatte da somali, o anche dal suo insolito preside, voce fuori dal coro della comunità italiana, che le spiega che ritiene prioritaria la lotta all’analfabetismo, l’istruzione delle masse, in modo da evitare che “un piccolo gruppo detentore del sapere si trasformi in un’oligarchia di despoti”. Il paternalismo racchiuso in certe frasi pronunciate dagli ex coloni, o pubblicate sui libri di scuola, comincia a rivelarsi per quello che è: il volto presentabile dell’oppressione. Un’oppressione la cui ferocia si svela gradualmente, guadagnando spazio sulla descrizione della dolce vita coloniale.
Dirompente per Clara l’apprendere il passaggio in clandestinità dell’amato figlio di Ebla, una cui poesia le apre gli occhi sul problema delle terre espropriate dagli italiani e che non sono mai state rese ai proprietari originari (problema che affligge ancor oggi le ex colonie favorendo la concentrazione del potere a scapito di popolazioni costrette a vivere nella miseria).
Nell’intreccio di una trama articolata, Ali Farah adopera un filo per raccontare, con la mitezza che le è propria, la presa di coscienza di Clara del privilegio, dell’ingiustizia, del razzismo in cui è cresciuta e che ancora le permette di vivere agiatamente; della capacità delle persone di nascondersi ciò che è meglio non vedere; delle strategie per “conservare” la buona fede che ancor oggi applichiamo.
Un altro filo è per Ebla. “Anche io voglio essere libera (…) e, se mi sposi, saremo liberi insieme e nessuno di noi sarà né deriso, né umiliato”: così da giovanissima aveva chiesto la mano del bel camionista che l’aveva rispettata, pur consapevole della fragilità della sua situazione. Infatti, unica figlia di un vecchio nomade che l’aveva vezzeggiata e istruita nella lettura delle stelle e nelle proprietà delle piante, mostrandosi sempre interessato alla sua opinione, Ebla era fuggita quando il consiglio degli anziani aveva deciso di maritarla a un uomo arrogante e incurante di lei e il padre non aveva saputo opporsi. Indomita e consapevole, Ebla ha cresciuto una figlia che, come lei, vuole essere artefice del suo destino (“non credo che il destino sia solo un capriccio”), nonostante gli avvertimenti dei parenti: “lasciare che scorrazzi tutto il giorno libera e curiosa, questo dovresti evitarlo. Sai bene che le faranno presto capire qual è il suo vero posto” . È Sagal, che arringherà i compagni di lotta sostenendo che “Non ci può essere indipendenza e unità se non c’è libertà per le donne” e di questa audacia pagherà le spese.
La condizione delle donne nelle due società maschiliste, somala e italiana, è un altro dei fiumi carsici del romanzo, oltre che un fil rouge di tutta l’opera di Ali Farah (si legga ad esempio la Danza dell’orice – Juxta Press, pagg. 52, euro 17,99 – fiaba senza tempo su una guerriera nomade che finirà in un circo). Paradigmatiche, per la comunità italiana, sono le due corteggiatrici di Enrico: la bella Mirella, che parla come un personaggio da fotoromanzo (e qui l’autrice ha un po’ forzato la mano) ma nasconde un segreto e tutta un’altra consapevolezza. E la ricca vedova imprenditrice Elena, futura presidente onoraria di un club di donne somale che, a sua detta, non sarà «il solito circolo femminista, delizia di suffragette ambiziose, ma un’istituzione per educare la donna alla sua missione di madre e di sposa». La parità dei diritti tra le persone: uomini e donne, bianchi e neri, somali e italiani, la necessità di questo per costruire società giuste, unite e non violente, e i modi per raggiungerla sono i grandi temi che si agitano nel profondo di questo bel romanzo, capace di andare al cuore delle contraddizioni della nostra epoca.
La stessa casa editrice romana, 66thand2nd, guidata da Isabella Ferretti, ha di recente portato in libreria un altro libro dove la riflessione sulla discriminazione delle donne va di pari passo con quella razziale, nella scia tracciata da Toni Morrison e altre grandi scrittrici afroamericane del secolo scorso: “Non lasciarmi sola”, della poetessa Claudia Rankine.
“Il perdono non perdona che l’imperdonabile” affermava Jacques Derrida. Il perdono – controbatte Rankine in “Non lasciarmi sola” – “è semplicemente una morte, un lento morire in fondo al cuore, la posizione di chi è già morto. Dopotutto è continuare a vivere attraverso quella morte, comprendere che è accaduto proprio questo, che sta accadendo, accade ora. Punto. È quel sentimento del nulla che non può essere comunicato ad altri, un’assenza, la postura di un vuoto che non si può colmare assunta da chi è vivo, al di là di tutto ciò che si odia o si ama”.
Si entra facilmente, ma ci si avvicina lentamente a questo splendido, penetrante piccolo libro, più bello ancora, forse, del pluripremiato “Citizen”, che lo ha seguito – solo ora, 17 anni dopo l’edizione statunitense, meritoriamente tradotto in italiano dall’editrice Isabella Ferretti, qui anche in veste di traduttrice. Serve infatti un po’ di tempo per sintonizzarsi a un modo di pensare sfalsato, alla voce volutamente sgranata e fuori tempo, ma così esatta, della poetessa e scrittrice afroamericana di origine giamaicana, che la traduzione rende con molta fedeltà. E quando questo accade, la distanza che l’autrice riesce a mettere tra gli eventi e la loro descrizione – che può essere un’ironia sottile e mai esibita, o una capacità di dilatare il tempo fermando e nominando una ad una le sensazioni, le emozioni, quello che non viene detto, che non emerge neppure alla coscienza ma che incombe nei gesti e nelle parole – consente di far affiorare una visione d’insieme di una nitidezza spaesante.
“Non lasciarmi sola” è un rimuginare, una successione di pensieri, fotografie, disegni, parole scorticate – e così sottratte all’ovvio che le rende vuote, afone – come solo una poetessa sa fare, spesso intervallato dall’immagine di una vecchia televisione sul cui schermo brulicano i quadratini bianchi e neri dell’impossibilità di accordare il circuito ricevente con la lunghezza d’onda della stazione trasmittente.
Come in “Citizen”, l’autrice racconta episodi che le accadono – sono gli anni che hanno seguito l’11 settembre 2001. Gesti, parole che sono spie di uno scollamento tra quel che si dice e quel che si pensa, e soprattutto tra quel che si pensa e quel che si pensa di pensare. La sua è una riflessione sulla letteratura, sulla possibilità di dire: “Se appaio in funzione di soggetto, che responsabilità ho rispetto al contenuto, all’autenticità, delle mie stesse parole?”. È una meditazione sulla morte, sulla dimenticanza, sulla solitudine (che è “quello che non possiamo fare gli uni per gli altri”), sulla depressione, sulla discriminazione e la violenza subita, sulla tossicità che esercitano sul suo fegato l’America e i farmaci che prende.
Su chi diventeremo quando non avremo più la forza di piangere: “Cornel West dice che questo è ciò che non va nei neri di oggi – sono troppo nichilisti. Troppo feriti dalla speranza per poter sperare, e troppo segnati dall’esperienza per poter fare esperienze, troppo vicini alla morte, ecco quello che penso”.
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