Il piano anti violenza manca da nove mesi. Il progetto triennale 2017-20, con cui si tracciava per la prima volta un approccio onnicomprensivo alla lotta alla violenza maschile sulle donne, basato sulle tre P della Convenzione di Istanbul (prevenzione del fenomeno, punizione del colpevole, protezione delle vittime), è infatti scaduto a dicembre scorso. Nel frattempo il lavoro sul nuovo piano è andato avanti, ci sono stati i tavoli tematici con tutti gli stakeholder, le parti sociali e datoriali, le associazioni. Il lavoro fatto è stato poi portato in Cabina di regia per la valutazione da parte delle autorità politiche coinvolte e l’eventuale presentazione di modifiche.
Ora questo lavoro verrà mandato al Coordinamento tecnico Stato-Regioni e, se approvato, il passaggio successivo sarà in Conferenza Stato-Regioni. Tuttavia, ad oggi, i centri anti violenza e le associazioni che lavorano nel settore, strutture cardine nella lotta alla violenza maschile sulle donne, stanno ancora aspettando il piano e chiedono, di fronte alla recente sfilza di femminicidi e agli episodi di vittimizzazione secondaria delle donne, che diventano vittime due volte per mano di magistrati, avvocati giornalisti e assistenti sociali poco formati, di intervenire al più presto su determinate criticità. Occorre puntare, secondo i centri, sulla formazione, sulle risorse, sul potenziamento delle reti territoriali.
D.i.Re: il ritardo rischia di creare una situazione difficilissima nei territori
“Mancano tre mesi – afferma Antonella Veltri, presidente di D.i.Re-donne in rete contro la violenza, associazione che raggruppa circa 80 centri sotto lo stesso ombrello – alla fine dell’anno e ancora non abbiamo il nuovo piano nazionale anti violenza. I centri anti violenza guardano con grande preoccupazione a questa situazione e non solo perché il Piano definisce anche il quadro dei finanziamenti previsti per legge per i centri anti violenza e le case rifugio. Questo ritardo rischia di portare a una situazione difficilissima nei territori, che le organizzazioni che gestiscono centri anti violenza e case rifugio saranno chiamate ad affrontare ancora una volta facendo affidamento sulle loro sole forze. Il che significa, spesso, continuare a supportare le donne che hanno subito violenza facendo affidamento sul lavoro volontario”. Il piano, procede Veltri, “ha il compito di definire tutto il quadro delle azioni che il governo mette in campo, anche sul fronte della prevenzione della violenza o della formazione del personale che a vario titolo entra in contatto con donne che hanno subito violenza, per affrontare un fenomeno che è strutturale, per rispondere alle criticità segnalate dal Grevio rispetto all’applicazione della Convenzione di Istanbul, per ridurre le situazioni di vittimizzazione secondaria che continuano a emergere.
Non possiamo evitare di leggere il protrarsi di questo ritardo come una sostanziale sottovalutazione politica della violenza maschile contro le donne. E questo è veramente grave a fronte del numero di femminicidi che non si arresta e a fronte del carico di lavoro che già oggi sperimentiamo nei centri antiviolenza della rete D.i.Re”.
Telefono Donna in Basilicata: “Discriminati dalla Regione”
La mancanza del piano si fa sentire proprio e soprattutto a livello locale, dove i centri, che a volte rappresentano l’unico riferimento per le donne in difficoltà, spesso aspettano i finanziamenti per sopravvivere e portare avanti la lotta alla violenza. “Di fatto – spiega Cinzia Marroccoli, presidente di Telefono Donna, associazione presente in Basilicata da 32 anni – siamo da mesi senza piano e, tra l’altro, siamo stati esclusi da un bando dell’assessorato regionale alla Salute che è stato rivolto solo alle cooperative sociali”.
Per contribuire a fermare la strage delle donne è necessario, si legge nella lettera aperta dell’associazione all’assessore alla Salute Rocco Leone, che il Governo “vari il nuovo piano nazionale anti violenza, fermo al 2020, cosicché le nostre Regioni possano legiferare senza improvvisazioni”. La regione Basilicata, “attraverso il dipartimento Politiche della persona, ha deciso di andare avanti per conto suo escludendo, attraverso due Dgr, il numero 243 del 2021 e il numero 335 del 2021, l’intero mondo del volontariato, di cui il Telefono Donna ha sempre fatto parte, sia dalla possibilità di stipulare convenzioni per sportelli d’ascolto dedicati a donne in situazione di violenza nei vari ambiti territoriali, sia dall’affidamento, tramite manifestazione di interesse, di attività di progettazione, formazione e comunicazione, sempre sul tema del contrasto alla violenza. Una discriminazione, questa, priva di un qualsiasi fondamento logico”.
Pangea: “Alcuni femminicidi si sarebbero potuti evitare”
Anche Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea e della rete Reama, sottolinea l’assenza del piano e chiede che nel nuovo progetto ci sia attenzione alla formazione e alle reti territoriali. “Riguardo al piano anti violenza sarebbe opportuno capire quando ci sarà un piano da attuare, anche perché ultimamente abbiamo avuto tantissimi femminicidi. Alcuni di questi si sarebbero potuti evitare. Serve, dunque, un piano operativo, che vada nella direzione di finanziare e di creare coordinamenti territoriali soprattutto nelle località dove non ci sono i centri anti violenza”. Inoltre “una fetta grossa del piano dovrebbe andare alla formazione, essenziale nella prevenzione della violenza, e alle reti territoriali. Quello che serve, infatti, è il coordinamento di enti, comuni, regioni per un approccio più incisivo e capillare”.
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