Sul tema, sempre complicato, dell’aborto le battaglie delle donne non arretrano di un passo, ma la questione pare di quelle destinate a non trovare pace. In nome della difesa della vita si infliggono, ancora oggi, le peggiori sofferenze. Diritti negati, dignità vilipesa, una realtà che in troppe purtroppo conoscono bene e che continua ad accadere da millenni. Qualcosa nell’ultimo periodo, però, pare stia cambiando. Ce lo dicono le piazze che possono essere il motore delle rivoluzioni, le volte in cui non si limitano a catalizzare dissenso ma mirano a costruirlo, quel mondo migliore.
L’Argentina da dicembre ha una legge per l’interruzione di gravidanza libera e sicura. L’America latina è una di quelle regioni del mondo dove in molta parte l’aborto è ancora vietato. E mentre a El Salvador, Haiti, Honduras, Nicaragua e Repubblica Dominicana, interrompere la gravidanza è un crimine, in migliaia, si ritrovano a manifestare fasciate da sciarpe verdi. Lo fanno in nome di un diritto non più negoziabile.
È notizia di fine settembre l’approvazione in Cile del disegno di legge per la depenalizzazione dell’IVG fino alla 14esima settimana di gestazione. Con il voto a favore di 75 deputati, contro 68 e 2 astenuti, la Camera bassa traghetta nella seconda fase dell’iter parlamentare la norma che sarà chiamata a cancellare il divieto generalizzato, imposto dalla dittatura di Pinochet. In Ecuador, la scorsa primavera, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali le disposizioni del codice penale che proibiscono l’interruzione della gravidanza persino dopo lo stupro.
La maternità è da sempre declinata come dovere: un obbligo cui per natura le donne non devono e non possono sottrarsi. Con questo scenario, anche dopo le più recenti conquiste, la strada verso l’affermazione del diritto a non volere un figlio e a non vedersi madri a tutti i costi non sembra semplice né il percorso lineare. Quello che abbiamo imparato, a nostre spese, è che un diritto conquistato non è mai – quando si tratta delle donne – un diritto acquisito.
In moltissime denunciano ancora una condizione inumana. Il report a di Human Rights Watch squarcia il velo su criminalizzazione e violenza, proprio in Ecuador. Un interrogativo tragico che arriva fino a noi da più di un centinaio di testimonianze: “Perché vogliono farmi soffrire ancora?”. L’impatto delle azioni penali contro l’aborto è un documento che mette nero su bianco sofferenze gravi come torture.
Anche l’Europa risente del clima e non può esimersi dall’interrogarsi
A fine giugno è stata adottata una risoluzione affinché gli Stati dell’Unione si impegnino a proteggere e migliorare la salute e i diritti sessuali e riproduttivi delle donne, a garantire l’accesso all’aborto sicuro e legale, a rimuovere le barriere ai servizi di salute sessuale e riproduttiva, tenuto conto degli effetti della pandemia che non possono ignorarsi. 378 voti favorevoli, contro i 255 contrari e le 42 astensioni, hanno posto sul tavolo anche il tema non più differibile dell’IVA sui prodotti mestruali che vengono reputati, finalmente, beni di base essenziali. Questo documento segue di poco la risoluzione sul Vertice di Nairobi che riconosce che alle donne di tutto il mondo vadano assicurati un’assistenza sanitaria adeguata e accessibile e il rispetto dei loro diritti sessuali e riproduttivi.
“Alcuni Stati membri applicano ancora leggi fortemente restrittive che vietano l’aborto, salvo in circostanze rigorosamente definite, costringendo le donne a ricorrere all’aborto clandestino, a recarsi in un altro paese o a portare a termine la gravidanza contro la loro volontà, e ciò costituisce una violazione dei diritti umani e una forma di violenza di genere”. La risoluzione non legislativa ha toni che a chi urla nelle piazze per l’affermazione dei propri diritti possono sembrare blandi: i deputati esortano gli Stati, si rammaricano. ‘‘Questo voto segna una nuova era nell’Unione europea e la prima vera resistenza a un’agenda regressiva che ha calpestato i diritti delle donne in Europa per anni. La maggioranza dei deputati europei ha chiarito la propria posizione agli Stati membri e li ha invitati a garantire l’accesso all’aborto sicuro e legale e ad una serie di altri servizi di salute sessuale e riproduttiva”, così il relatore Predrag Matić che fa parte dell’area progressista di socialisti e democratici (S&D, HR).
Le decisioni di quest’estate non giungono inaspettate. E, infatti, già a novembre il Parlamento Europeo condannava il pronunciamento con cui il tribunale costituzionale polacco il 22 ottobre del 2020 dichiarava illegale l’aborto, nei casi di gravi e irreversibili malformazioni fetali: è una violazione dei diritti sessuali e riproduttivi. “Mette a rischio la salute e la vita delle donne. I deputati avvertono che la messa al bando di questa opzione, che ha rappresentato il 96% delle interruzioni di gravidanza legali in Polonia nel 2019, porterebbe ad un aumento degli aborti non sicuri, clandestini e potenzialmente mortali”.
Ma la risoluzione di giugno è importante per un altro motivo: vi è scritto, senza possibilità di infingimenti, che quando parliamo d’aborto è di un diritto che stiamo parlando. Il primo Considerando è nettissimo: “La salute sessuale e riproduttiva è uno stato di benessere fisico, emotivo, mentale e sociale in relazione a tutti gli aspetti della sessualità e della riproduzione, non soltanto l’assenza di disfunzioni, infermità o mortalità”. Fa un passaggio epocale l’Europarlamento e considera che “tutte le persone hanno il diritto di prendere decisioni in relazione al loro corpo senza subire discriminazioni, coercizioni e violenze e di accedere a servizi per la salute sessuale e riproduttiva che sostengano tale diritto e garantiscano un approccio positivo alla sessualità e alla riproduzione, dato che la sessualità è parte integrante dell’esistenza umana”.
Vietare l’aborto, significa innanzitutto costringere alla pratica clandestina. “Le violazioni della salute sessuale e riproduttiva e dei relativi diritti costituiscono violazioni dei diritti umani, in particolare del diritto alla vita, dell’integrità fisica e mentale, dell’uguaglianza, della non discriminazione, della salute, dell’istruzione, della dignità, della vita privata e della libertà da trattamenti disumani e degradanti; le violazioni della salute sessuale e riproduttiva e relativi diritti delle donne costituiscono una forma di violenza nei confronti delle donne e delle ragazze e ostacolano il progresso verso la parità di genere”.
Nel frattempo a San Marino un referendum sancisce in queste ore, con una forza del 77%, che si smetta di considera reato l’IVG dal momento che costituisce l’esercizio di un diritto. Una certa parte dell’ultradestra, quella cattolica, scalpita. In questi giorni Avvenire consiglia “Unplanned”. La pellicola che definisce l’America un “abortificio” esce nel nostro Paese con il divieto di visione ai minori di 14 anni, per via di scene scientificamente non verosimili.
Il Texas ha appena varato una legge che vieta l’interruzione di gravidanza già dopo la sesta settimana e persino nei casi di incesto e di stupro, come aveva già fatto la Carolina del Sud a febbraio. Un’aberrazione che ha passato il vaglio della Suprema Corte. E mentre in molti parlano già di Taliban State, è lo stesso presidente Joe Biden a criticare aspramente quella che è stata definita come la legge più restrittiva del Paese. Nelle dichiarazioni della vicepresidente Kamala Harris l’impegno dell’amministrazione in difesa del diritto delle donne di interrompere la gravidanza in sicurezza. Intanto una mezza dozzina di Stati repubblicani si allineano e convergono sul modello della legge texana: “GOP officials in at least seven states, including Arkansas, Florida, South Carolina and South Dakota, have suggested they may review or amend their states’ laws to mirror Texas’s legislation, which effectively bans abortions after six weeks. Kentucky, Louisiana, Oklahoma, Ohio and more are expected to follow”. Per i movimenti è la peggiore legislatura “the worst legislative year ever for U.S. abortion rights”.
In Italia la legge 194 compie 44 anni. L’obiezione di coscienza rende però, da sempre, il diritto d’aborto di difficilissima esecuzione. La Sicilia è la regione dove 6 ginecologi su 5 non praticano – e perciò, di fatto, non permettono – l’interruzione di gravidanza. Anche per questo, a Palermo una piazza restituisce l’eco di tutte le donne del mondo. Gli aborti clandestini vanno letti in raffronto ai dati delle IVG. La Relazione del ministro della salute sulla attuazione della legge contenente norme per la tutela sociale della maternità e per l’interruzione volontaria di gravidanza consegna numeri inequivocabili: “In totale nel 2019 sono state notificate 73.207 IVG, confermando il continuo andamento in diminuzione (-4,1% rispetto al 2018)”. Il trend in calo resta confermato dal tasso di abortività. Il ricorso all’interruzione di gravidanza nel 2019 è diminuito in tutte le aree geografiche; diminuzioni percentuali particolarmente elevate si osservano in Molise, Umbria, Marche, Calabria e Lazio, mentre Valle d’Aosta e Basilicata mostrano un lieve aumento di interventi e di tassi. Nel 2020 in Sicilia di aborti ne sono stati dichiarati 4920, in Lombardia 10857, nella sola Milano si praticano più IVG che nell’intera isola.
Sugli aborti clandestini i dati sono, comprensibilmente, anche peggiori e indicano una stabilizzazione del fenomeno proprio negli ultimi anni. L’analisi è del 2012 e ha stimato le pratiche clandestine in un numero compreso tra 12.000 e 15.000. Se poi guardiamo alle donne straniere, ci attestiamo tra i 3.000 e i 5.000 casi.
Clandestinità vuol dire nessuna sicurezza, metodi inadeguati, pratiche improvvisate, le donne restano esposte a gravissimi rischi fino a mettere in pericolo la vita. Di aborto clandestino si muore. La questione è, indiscutibilmente, di quelle ideologiche e divisiva risulta una linea di demarcazione, al netto delle implicazioni religiose: o ci pone a favore o ci si schiera contro il diritto delle donne a decidere del proprio corpo.
Da una parte, si allinea quel pezzo ultracattolico di società che spinge da sempre sul tasto del diritto alla vita, mentre dall’altra è innanzitutto il femminismo, o meglio sono i femminismi a non arretrare davanti a uno scontro che è principalmente una questione di libertà.
Rimane in Italia il perdurare di una condizione che azzera il diritto delle donne ad autodeterminarsi e a non subire discriminazioni e che è fortemente connotata da fattori quali il contesto geografico di appartenenza e la condizione economica e sociale delle donne. Provare ad arginare la massiccia obiezione di coscienza nello stesso modo in cui si sta cercando di far fronte al fenomeno dei camici bianchi che si professano no vax potrebbe, forse, risultare una via percorribile.
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