Quanto a lungo possiamo convivere con la paura? Tra non molto, gli anni di convivenza con il covid diventeranno due e il nostro cervello sceglierà di mantenere alcuni assetti nel lungo termine, piuttosto che restare nell’incertezza. Probabilmente sta già succedendo, ma se ne parla poco.
L’altro giorno, a Roma, in un’ariosa e luminosa piazza del Popolo, mia madre mi è venuta incontro con la mascherina sul volto. Lei è vaccinata, io sono vaccinata, le altre persone erano ad almeno 10 metri da noi. “Non me ne accorgo nemmeno più”, mi ha detto, “e mi fa sentire più al sicuro”. La mascherina la fa sentire protetta, perché lei ha paura. Ha paura di ammalarsi, di morire. Non abbiamo questa paura ogni volta che attraversiamo una strada, né percepiamo costantemente la paura di ammalarci di molte altre possibili e diffuse patologie, anche più letali del covid. Tutti ci ammaliamo e tutti moriamo, ma non viviamo con questa costante consapevolezza perché sarebbe una vita troppo dolorosa. La paura di morire diventerebbe paura di vivere.
Possiamo quindi restare in sospeso ed essere spaventati, come molti di noi sono adesso, solo se pensiamo che il covid prima o poi sparirà, portandosi via la nostra ansia. Ma sappiamo che non è così. Gli scenari possibili sono diversi, in nessuno di questi il covid scompare. Il più probabile è che diventi endemico, come le più comuni influenze. E, come queste, uccida una minima percentuale di chi si ammala. Come sta già avvenendo, i contagi possono restare alti, ma la percentuale di malati gravi e di decessi si abbassa.
“Il coronavirus non è qualcosa che potremo evitare per sempre”, scrive Sarah Zhang su L’Atlantic, “Dobbiamo prepararci alla possibilità che vi saremo tutti esposti, in un modo o nell’altro. Accadrà che il coronavirus smetterà di essere una novità: per il nostro sistema immunitario e per la società”.
Ma, mentre del sistema immunitario sentiamo parlare tutti i giorni e sul sistema immunitario stiamo alacremente lavorando, sembra che ci aspettiamo che la società “segua” senza bisogno di grande supporto. Il caso di mia madre e di molte altre persone spaventate dimostra che non è così. Una persona che ha paura convive con uno stato di stress, sottile ma costante, che può diventare cronico. Fa scelte più conservative e cerca di meno gli altri. Se possibile, si rinchiude. E’ più facilmente aggressiva, meno incline ad aiutare il prossimo e all’empatia.
La paura ci isola e ci porta a pensare solo a noi stessi: lo stato di pericolo mette l’istinto di sopravvivenza in primo piano, e non è un istinto generoso. Indossare la mascherina all’aperto, in una luminosa giornata di sole, è un diritto. Ma vuol dire respirare male, aria che ristagna e che non ci conforta. Vuol dire nascondere il volto al mondo come se questo fosse normale, come se quel volto non avesse nulla da dire. Come se quel volto non avesse bisogno di essere visto e riconosciuto, mentre la socialità e il sentirsi accolti sono anch’essi elementi fondamentali al nostro benessere, alla nostra sopravvivenza. Ci sembrano meno immediatamente importanti, ma nel lungo termine (e per un tema genetico, non solo sociale) rendono la nostra vita degna di essere vissuta.
D’istinto, quando mia madre mi ha detto che teneva su la mascherina per paura, le ho risposto “in qualche modo bisogna pur morire”. E’ una frase brutale, ma io lo intendevo come un invito a vivere. In questi anni abbiamo scelto di rinunciare a molte cose importanti pur di rallentare la pandemia: abbiamo dato per scontato che potessimo continuare a vivere e a lavorare senza incontrarci, senza toccarci, senza viaggiare, senza uscire di casa. Alcune narrazioni hanno spinto verso l’idea che alla fine siamo riusciti a fare ancora bene tutte le cose necessarie, ma la verità è che abbiamo fatto tutto peggio e abbiamo perso molte fonti di energia per noi vitali. Non solo “è meno vita”, ma pensiamo meno e peggio, siamo meno creativi, ci sentiamo meno amati e abbiamo meno possibilità di amare. E’ un grande sacrificio ed è importante sapere (o almeno sperare) che potremo interromperlo anche se e quando il coronavirus sarà ancora tra noi.
Si tratta di un altro tipo di contagio, che sta infettando tutta la popolazione mondiale e che rischia di durare più a lungo del picco pandemico: la paura e le nuove abitudini, che ci tengono lontani dal prossimo, ci tolgono un altro tipo di aria, altrettanto essenziale. Anche per questa patologia, che sta colpendo in modo silenzioso e invisibile un altissimo numero di persone, servirebbe un vaccino: un’iniezione di fiducia e di vicinanza con gli altri, una narrazione che riconduca questa fase della storia umana all’interno di una narrazione più ampia, che la normalizzi; dosi diffuse e generose di coraggio, apertura, respiro all’aria aperta per imparare di nuovo a farsi vedere e a guardare gli altri, se non ancora toccarli e a lasciarsi toccare.
E sì: toccandoti potrei trasmetterti un virus, persino io che sono vaccinata. Ma hai bisogno del mio abbraccio, mamma, per ricordarti che sei amata.
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