La notizia per gli addetti e le addette ai lavori ha i contorni di una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Il comunicato stampa del 3 giugno scorso riguarda la causa rubricata come C-624/19 K e a. / Tesco Stores Limited e dà conto di una decisione dei giudici europei, investiti in via incidentale della questione da un tribunale inglese. La fattispecie coinvolge circa sei mila dipendenti i quali avevano citato in giudizio un rivenditore al dettaglio, per non avere beneficiato della parità di retribuzione. Sostenevano i ricorrenti che il datore di lavoro avesse violato sia la normativa nazionale che quella comunitaria, ai sensi della quale «ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore».
La decisione tocca un terreno sempre molto dibattuto. È del 4 marzo scorso la relazione licenziata dalla Commissione permanente sui diritti delle donne e l’uguaglianza di genere, insediata presso il Parlamento europeo, dal titolo “Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council to strengthen the application of the principle of equal pay for equal work or work of equal value between men and women through pay transparency and enforcement mechanisms“.
Il documento di qualche mese fa isola ciò che la Corte UE sancisce oggi: quello della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile per uno stesso lavoro ma anche per un lavoro di pari valore contemplato nell’articolo 157 TFUE (ovvero Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) costituisce uno dei principi fondamentali dell’Unione ed è direttamente invocabile dagli interessati o dalle interessate davanti ai tribunali nazionali.
La parità è dunque principio indefettibile e affonda le proprie radici nelle radici stesse dell’Unione, promana dal Trattato di Roma e trova copertura – oltre che nelle fonti costituzionali degli Stati membri – anche in importantissime norme successive, a partire dalla Direttiva 2006/54/E.
È chiaro come l’obiettivo perseguito dalla norma comunitaria sia eliminare qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, il tassello nuovo è che i giudici lo ribadiscano oggi nei diversi passaggi di quella decisione. La conseguenza non è di poco conto. La sentenza riconosce efficacia diretta a un precetto che da questo momento potrà essere invocato da chiunque, dinanzi a qualsiasi tribunale nazionale. Si potrà rivendicare a gran voce che a un lavoro di pari valore, svolto per lo stesso datore anche presso stabilimenti diversi, non dovrà corrispondere alcuna differenza di retribuzione. Si prova insomma a ribadire che la divergenza di genere è fuori legge e va bandita.
Per spiegare ciò che a un primo sguardo può sembrare un tecnicismo, va detto che la determinazione della Corte UE interviene in sede di “rinvio pregiudiziale”. Si tratta di una procedura avviata dai giudici degli Stati membri che investono i colleghi europei, circa l’interpretazione del diritto dell’Unione o la validità degli atti adottati dalle istituzioni. Pur tenendo presente che la Corte non risolverà la vertenza interna, ciò che davvero rileva è che quella decisione vincolerà il giudice nazionale che sarà dunque chiamato a conformarsi a quel disposto.
Il problema resta e non è di facile soluzione, ma quelle istituzionali sono certamente sedi privilegiate per ottenere misure di parità e, in fondo, di equità.
Provare a capire un fenomeno, significa anche isolarne i tratti. La Relazione citata in apertura e conservata tra gli Atti parlamentari della XVIII Legislatura — Doc. XXVII n. 3 Vol. I – ha il pregio di mettere nero su bianco la chiave di lettura: «È importante specificare che, anche quando si trova nel differenziale salariale una significativa componente discriminatoria, questa discriminazione non è necessariamente imputabile ad un comportamento intenzionale, deliberato, volto a nuocere del decisore, ma è, nella maggior parte dei casi, di natura statistica». Entra finalmente dentro i palazzi delle istituzioni la consapevolezza che a dare origine alla discriminazione sono gli stereotipi. Essi vengono intesi come strumenti «utili per ordinare la complessità, ridurre l’incertezza e predire il comportamento individuale, ma danno luogo ad una valutazione non imparziale della prestazione lavorativa».
È facile convenire con le evidenze della nutrita letteratura scientifica citata nella Relazione: proprio a causa degli stereotipi, accade che un’ identica prestazione sia valutata in modo sostanzialmente diverso se attribuita ad una donna invece che ad un uomo, con una «marcata e sistematica sottovalutazione delle competenze della componente identificata da un nome di donna».
La portata del problema è certamente da ricondurre al rapporto tra le donne e il mondo del lavoro che è difficile e per millenni ha incarnato il più classico dei tabù. È accaduto per molto, troppo tempo; in molti, troppi luoghi continua ad accadere. Se si guarda ad esempio al divario di genere nelle pensioni si scoprono anche su quel versante dati tutt’altro che confortanti. Nel 2018 quel gap si attestava al 30%, con un range tra il tetto massimo del Lussemburgo al 43% e il minimo all’1% rappresentato ancora dall’Estonia.
Qualcosa – è chiaro – in questi decenni non ha funzionato. Se gli obiettivi isolati un quarto di secolo fa dalla Dichiarazione e dalla Piattaforma d’azione di Pechino restano ancora oggi semplicemente degli obiettivi, c’è da prendere atto di un innegabile fallimento nella strategia. È del febbraio di quest’anno, del resto, la Risoluzione per valutare i progressi compiuti dopo oltre 25 anni dalla dichiarazione di Pechino e le sfide future che ancora attendono l’Unione con riferimento ai diritti delle donne.
L’indagine, più di qualsiasi altro termometro, dà lo stato dell’arte e consegna un’agenda piena di traguardi non ancora raggiunti ma soprattutto di preoccupanti passi indietro. Alcuni paesi dell’UE più di altri sono sotto i riflettori. Di diverso c’è forse che le donne non stanno più a guardare e, in moltissime, ormai riempiono piazze.
Il quadro europeo
Per inquadrare il gender pay gap basta l’immagine che campeggia sul sito istituzionale del Parlamento europeo. Fotografa una questione che è chiarissima: esiste, tra i lavoratori dipendenti di sesso maschile e quelli di sesso femminile, una differenza di retribuzione che per le donne è montagna da scalare, per lo più a mani nude.
«In ogni Paese del mondo le donne guadagnano in media meno degli uomini, anche quando sono più istruite, come accade in genere nei Paesi a economia avanzata. Anche se si laureano con voti sistematicamente migliori, fin dal primo impiego guadagnano meno degli uomini. All’ingresso nel mercato del lavoro il divario non è molto consistente, ma diventa presto più marcato e continua a crescere per tutta la durata della vita lavorativa». Lo dice nel 2017 la Relazione sulla sperimentazione dell’adozione di un bilancio di genere, a firma dell’allora ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria. La comunicazione europea punta su una strategia ancor più diretta e con un video prova a spiegare come ridurre la distanza tra Sophie e Tom.
Se vogliamo inquadrare il problema dobbiamo intanto chiarire cosa si intenda per divario di genere nelle retribuzioni orarie e tenere presente che questo dato è calcolato sulla differenza tra i salari orari lordi medi di uomini e donne, espressi in percentuale del salario medio maschile. In media nell’Unione europea nel 2016 quel gap era al 16,2%. Mentre, l’infografica di questi giorni dà conto di una forbice che va dal 3% della Romania al 22,7% dell’Estonia; l’Italia sta al 5%.
Per zittire eccezioni ideologiche o semplicemente frettolose, occorre dire a gran voce che il problema da noi esiste, eccome, come spiega la prof.ssa Luisa Rosti. In nessun modo, infatti, la lettura di quei numeri potrà prescindere dal considerare un elemento ovvio: divari retributivi più bassi sono collegati ad una minore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
Parliamo in soldoni di discriminazione. La parità, del resto, o è declinata in tutte le sue accezioni – la prima delle quali è certamente quella retributiva, reddituale e, in definitiva, economica – o non è affatto parità. Al più è concessione. Se cerchiamo uno spazio da percorrere per colmare il gender pay gap e riportare la simmetria, quello è intanto lo spazio del diritto.
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