Sette pagine fitte e senza tentennamenti: sono quelle in cui la procura generale presso la Corte di cassazione smonta pezzo per pezzo il castello di carta dell’alienazione parentale tanto in voga nell’universo parallelo delle aule giudiziarie in cui, non di rado, alle donne vittime di violenza viene sottratta la custodia dei bambini. Una requisitoria senza appello depositata nell’udienza del 15 marzo scorso sul caso di un bambino allontanato dalla madre e collocato in casa famiglia, dopo le denunce di violenza domestica sporte dalla donna. Un capovolgimento di responsabilità, con esiti kafkiani, possibili grazie alla teoria dell’alienazione parentale, oggi sempre meno nominata negli atti giudiziari, ma comunque presente attraverso le accuse nei confronti delle madri di “invischiamento”, “rapporto simbiotico” e di ostacolo al rapporto con l’altro genitore, anche se violento.
Da quel che si coglie nelle pagine delle conclusioni a firma della procuratrice generale Francesca Ceroni, già giudice del Tribunale dei minori di Firenze e ora in servizio al Palazzaccio di Roma, il bambino aveva denunciato la violenza del padre: il giudice però non ne tiene conto, e in un corto circuito sempre più frequente in queste vicende, lo affida ai servizi sociali collocandolo in casa famiglia. «Nel provvedimento impugnato – recitano le conclusioni della procuratrice – non viene indicato alcun fatto, circostanza, o comportamento tenuto dalla madre pregiudizievole al figlio ma sono unicamente evocati concetti evanescenti come “l’eccessivo invischiamento”, “il rapporto fusionale”, rispetto ai quali è impossibile difendersi non avendo essi base oggettiva o scientifica essendo il risultato di una valutazione meramente soggettiva».
Le violazioni del diritti dell’infanzia
Le conclusioni della procura nell’ambito del procedimento (n.36260/19) chiamano in causa innanzitutto la giurisprudenza della stessa Cassazione (7041/2013) che in un caso del tutto simile ha censurato “la decisione di sottrarre un bambino all’ambiente materno con il quale il rapporto – indipendentemente dalla condotta ritenuta “alienante” – non presenta altre controindicazioni per collocarlo (…) in una struttura educativa“. L’orientamento della Cassazione (sentenza 6919/20016) richiama poi il giudice di merito, nel caso specifico la Corte di Appello di Roma, a verificare “le ragioni del rifiuto del padre dalla parte della figlia” ogni qual volta un genitore denunci violazioni da parte dell’altro genitore. Nella vicenda – scrive la procura – “le ragioni del rifiuto emergono chiaramente nella annotazione di servizio dei carabinieri” ai quali il bambino aveva denunciato comportamenti violenti da parte del padre “rifiutato”. In definitiva secondo la procura della Cassazione la decisione del giudice dii merito di collocare il bambino in casa famiglia sottraendolo alla custodia della madre “viola non tanto il principio di bigenitorialità ma il diritto del fanciullo a mantenere la continuità affettiva e di cura con la madre oltre a violare il suo diritto alla conservazione all’habitat domestico (…) che per giurisprudenza costante deve essere protetto in quanto luogo che maggiormente favorisce l’armonico sviluppo psico-fisico del minore“.
La Convenzione di Istanbul e il Codice Rosso
Le conclusioni depositate dalla procura generale della Suprema Corte rivestono un’importanza particolare anche per il richiamo netto alla norma sovranazionale, spesso trascurata dai giudici nelle vicende di violenza con al centro la questione dell’affidamento dei figli. Si tratta della Convenzione di Istanbul, tornata alla ribalta in questi giorni per la decisione della Turchia di sfilarsi dall’accordo internazionale per la tutela delle donne e dei bambini vittime di violenza. E che invece non deve essere trascurata, perché la norma 77/2013 con cui l’Italia ha ratificato l’accordo “si colloca al di sopra della legge e costituisce parametro interposto nel giudizio di costituzionalità“. Ricordando che l’articolo 31 della Convenzione esclude “non solo l’affidamento condiviso ma anche qualunque contatto autore-vittima” il giudice stigmatizza la decisione della Corte di Appello che di fatto ha del tutto “omesso di approfondire gli episodi di percosse e di verificare gli esiti dei procedimenti penali, seguendo un vecchio paradigma per il quale giudizio civile e giudizio penale corrono su binari separati“. Nelle argomentazioni non manca poi il riferimento al Codice Rosso che in questo senso prevede proprio la trasmissione degli atti del penale al giudice civile chiamato a decidere in merito alla custodia dei figli.
L’ascolto del minore e l’alienazione parentale
Gli argomenti della procura non finiscono qui. Secondo le conclusioni i procedimenti dei giudici di merito sono gravemente carenti anche sotto il profilo dell’ascolto del minore, sollevato come vulnus dal ricorso depositato in Cassazione e considerato un “faro” in tutta la giurisprudenza nelle vicende in cui il magistrato deve decidere in merito a questioni che lo riguardano. E invece la Corte territoriale – si legge nell’atto – “non ha neppure riportato in modo sintetico i bisogni, le opinioni, le aspirazioni, espressi dal minore, né in alcun modo indicato le ragioni per le quali essi non coincidono con il suo “best interest”“. E qui torna in scena l’alienazione. Perché il meccanismo perverso che fa da sfondo alle storture giudiziarie, anche sotto il profilo delle garanzie e del giusto processo in ambito civile, rende donne e bambini “patologici” e quindi del tutto inattendibili anche nelle loro dichiarazioni davanti al giudice.
La procura affonda il coltello sia nelle procedure formali che nella sostanza dei provvedimenti. E ritiene grave e illegittimo aver ignorato l’ascolto del bambino protagonista della vicenda. “L’irrilevanza dei condizionamenti psicologici non provati e non dimostrabili non costituisce solo un punto di vista che i giudice può adottare o respingere ma un corollario dell’applicazione della legge e di principi costituzionali definiti dalla Corte costituzionale fondamentali, tra cui il principio di determinatezza (ordinanza n.22/2017)“. E qui c’è un passaggio dirimente anche questo fornito dalla stessa Consulta nella sentenza n.96 del 1981 che ha dichiarato l’illegittimità del reato di plagio. “Il giudice delle leggi in quell’occasione – si legge nelle conclusioni – ha ritenuto che perché una norma possa essere determinata deve regolare un fenomeno “effettivamente accertabile dall’interprete in base a criteri razionalmente ammissibili allo stato della scienza e dell’esperienza attuale“. L’alienazione genitoriale è al contrario molto controversa e la comunità scientifica internazionale non ha ritenuto di darle dignità di patologia né nel Dsm né nell’Icd (i principali manuali di classificazione diagnostica utilizzati in psichiatria).
Alienazione aleatoria e non determinata
Il gioco di parole è dietro la porta ma la sostanza è questa, secondo la procura. L’alienazione oltre a costituire un ribaltamento dei fatti di violenza, è aleatoria e non verificabile. Le osservazioni concludono per l’accoglimento del ricorso della madre sottolineando come “solo i condizionamenti accertabili su un piano scientifico a partire da comportamenti concretamente posti in essere possono costituire la ragione per confinare nell’irrilevante giuridico la volontà chiaramente e consapevolmente espressa dal minore, che il diritto vivente vuole al centro di ogni decisione che lo riguardi“. Ora toccherà ai giudici della Cassazione esprimersi sulla vicenda e decidere se accogliere o meno il ricorso. In attesa che, prima o poi, la questione non trovi ascolto dalla Corte costituzionale. Gli elementi non mancano: la procura della Cassazione li ha visti e messi in fila. Nero su bianco.
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