La Convenzione di Istanbul stracciata dalla Turchia a dieci anni dalla firma. Sembra un brutto gioco di parole, quasi un ossimoro in termini di geopolitica. Il principale strumento di contrasto alla violenza di genere, giuridicamente vincolante, mina l’unità familiare e incoraggia i divorzi. Sarebbero questi i motivi alla base del decreto presidenziale, firmato da Erdogan. La notizia battuta dall’ANSA, nella mattinata di sabato, rimbalza e fa discutere.
Immediata la reazione in Italia di Valeria Valente. La presidente della Commissione monocamerale d’inchiesta su femminicidio e violenza di genere, si dice sgomenta. “La notizia è una di quelle che non avremmo mai voluto sentire. La Convenzione del Consiglio d’Europa che ha riconosciuto la violenza contro le donne quale crimine contro l’umanità – spiega la senatrice Pd – era stata approvata proprio nella capitale turca e la Turchia era stata il primo paese a firmarla: nel 2011 fu un doppio segno di speranza e un messaggio rivolto a quei paesi che per religione e tradizioni sono ancora indietro nel riconoscimento dei diritti delle donne. Un pilastro della legislazione internazionale sui diritti e contro la violenza di genere. Ora, per decreto di Erdogan, questa drammatica giravolta. Secondo Ankara riconoscere alle donne il diritto a non essere violate, maltrattate e uccise dai mariti, evitare i matrimoni precoci e forzati danneggia ‘l’unità famigliare’“.
La situazione dei diritti umani in quella regione è tema, sempre, di scottante attualità. Già il Rapporto di Amnesty 2019-2020 fotografa un Paese senza regole. Ci si può ritrovare detenuti per ragioni politiche o private della libertà, come della vita, semplicemente perché si è denunciato uno stupro o non ci si è lasciate massacrare dall’uomo di casa.
La decisione di Ankara codifica un crimine contro l’umanità. Questa volta la condanna tocca tutte, vittime annunciate di indicibili e taciute violenze intrafamiliari. A luglio il femminicidio di Pinar Gültekin aveva portato in piazza migliaia di manifestanti. Quella contro le donne è strategia di una precisione chirurgica. Di loro, in fondo, il regime ha paura. Dalle donne teme la costante spinta verso una rinascita culturale in grado, certamente, di far deflagrare l’intero sistema repressivo. Sono dissidenti, dentro la famiglia e fuori da quella. Incarnano il pericolo della destabilizzazione e dunque vanno annientate e ridotte al silenzio. La Convenzione non può che essere il principale ostacolo da abbattere.
“Il fatto è gravissimo, un precedente inaccettabile – continua la presidente Valente – Blocchiamo subito questa deriva della cultura patriarcale del possesso. La Turchia deve sapere che questo è un ulteriore passo verso l’isolamento dal consesso occidentale, un passo che l’allontana sempre di più dall’Unione europea, con tutto quello che ne consegue”.
Da anni le donne turche si contano. Contano le sorelle ammazzate dai mariti, le figlie e i figli che lasciano orfani. Si chiama Kadin Cinayetlerini durduracagiz platformu, è on line la piattaforma sulla quale a ognuna è restituita la dignità violata. Nome e cognome, di mese in mese la lista dei cadaveri si fa infinita. Oltre quattrocento all’anno i femminicidi di cui si ha traccia dal 2018 a oggi. Nel Paese, il report di novembre faceva registrare 29 femminicidi e 10 suicidi, morti classificate come sospette. Si massacra più di una donna al giorno, impunemente. E le sopravvissute si organizzano da anni in una protesta che si fa, ora dopo ora, sempre più difficile. Da oggi perdono la loro bandiera. La Convenzione di Istanbul non esiste più, alle donne turche è stato scippato l’unico ombrello sotto cui provare a ripararsi per scansare i colpi del regime politico e patriarcale.
Lo scenario resta quello di una regione senza più libertà. Ma l’Europa che fa? L’adesione della Turchia all’Unione è ancora in piedi. Lo è per il ruolo che Ankara detiene sulla questione dei migranti, per i rapporti con la Libia, per le relazioni economiche che fanno di quel Paese il principale partner commerciale dell’UE con il 36,5% dell’interscambio totale, il sesto in ordine di importanza per l’Italia.
Restano indietro i diritti umani. A novembre del 2016 e poi anche nel 2017 gli eurodeputati hanno siglato una risoluzione che chiede la sospensione dei negoziati, fino alla cessazione delle repressioni. Di recente c’è la risoluzione del Parlamento Europeo sui prigionieri di coscienza, datata 21 gennaio. Le violazioni continue e impunite sono ancora una ferita aperta. Il documento non fa giri di parole e dà conto di ciò che definisce “un sistema più ampio di azioni penali e incarcerazioni per motivi politici“, senza però citare le donne nemmeno una volta.
E molte a vario titolo sono già cadute, nel frattempo. È il caso di ricordare Ebru Timtik, avvocata e attivista per i diritti umani, morta in carcere l’estate scorsa dopo 238 giorni di sciopero della fame. Come lei sono oltre trecento i difensori detenuti, uomini e donne di legge, privati e private di tutto. Il 21 marzo è banco di prova per l’Unione. In quella giornata dovrà tenersi un Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, chiamato a riesaminare con urgenza il rifiuto della Turchia di eseguire la sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Demirtaş (“ex membro del Parlamento turco tra il 2007 e il 2018, ex copresidente del Partito democratico del popolo turco (HDP) e candidato alle elezioni presidenziali del 2014 e del 2018 (in cui ha ottenuto il 9,76 % e l’8,32 % dei voti), detenuto da oltre quattro anni sulla base di accuse infondate e nonostante le due sentenze pronunciate dalla CEDH a favore della sua liberazione“).
Le voci di denuncia arrivano come eco da ogni parte del mondo. Dal suo esilio Pinar Selek, sociologa e attivista, è testimonianza vivente di torture e persecuzioni. “Lontano da casa“, recensito da Alley Oop qualche mese fa, ripercorre gli orrori che soffocano le libertà di un intero popolo. Sono i diari di una donna coraggiosa e determinata, ancora in vita perché ha scelto la Francia per continuare a denunciare.
Ma la Turchia non è un caso isolato. La Polonia da gennaio ha, di fatto, bandito l’aborto con una legge tra le più restrittive d’Europa e che ha ricevuto il placet della Corte Costituzionale di Varsavia. Vi si aggregano Slovacchia e Ungheria. Quei Paesi hanno già votato provvedimenti che anticipano l’uscita dalla Convenzione di Istanbul. Lo hanno fatto ancora una volta in nome della famiglia tradizionale. Posizioni conservatrici estreme che anche in Italia hanno sostenitori fortissimi nel Family Day, nella Lega di Simone Pillon, in FdI, nell’intergruppo Famiglia e Vita costituitosi in Parlamento che contava già nel settembre 2018 circa 150 parlamentari, tra cui la grillina Tiziana Drago da poco transitata nel partito di Giorgia Meloni.
La Convenzione di Istanbul è testo sacro dovremmo dire, ma da più parti è ritenuto pericoloso, promuoverebbe l’ideologia LGBT. Che i fatti di Ankara accadano nella stessa settimana in cui il Vaticano nega la benedizioni alle coppie omosessuali è un’altra circostanza che dovrebbe far riflettere.
C’è un’Europa sovranista e ultracattolica che si sta muovendo compatta, in una direzione precisa e sembra oggi più forte che mai.
Se l’obiettivo da circoscrivere è la libertà e l’autodeterminazione, dunque, vanno soffocate le donne per prime.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.