“Da lavoratore dello spettacolo mi sto impegnando per condividere quindici minuti al giorno di poesie, piccoli pezzi teatrali, dal balcone della mia finestra per i miei condomini che si affacciano sullo stesso cortile, alla stessa ora ormai da giorni. È un momento di raccoglimento collettivo”. Così scriveva Massimiliano Speziani, attore residente a Milano, lo scorso aprile, in pieno lockdown. Nel grave impedimento vissuto dai lavoratori dello spettacolo a causa della pandemia, reso ancora più grave dalla mancanza di tutele e protezioni economiche tipiche della categoria, l’unico modo per non perdersi è stato assecondare con ostinazione il bisogno di comunicare e creare relazione che è tipico del teatro.
Ne sono scaturite varie sperimentazioni, non tutte figlie della pandemia, a voler ben guardare. Ovviamente la pandemia, come in molti altri settori, è stata il trigger per interazioni che possono risultare più o meno innovative a seconda di quanta dimestichezza già si abbia con i linguaggi teatrali. Ha accelerato i processi per una svolta digitale, in alcuni casi, mentre in altri ha fatto emergere con forza la volontà di relazione, costi quel che costi. E così da qualche mese non si fa che parlare di Teatro Delivery, un nome che sembra una trovata geniale per come strizza l’occhio a quella che è stata quasi l’unica modalità di interazione e sostentamento per molti esercizi commerciali nei mesi del lockdown. In realtà si tratta di un’istanza che diversi artisti stavano già sperimentando a prescindere, e che in questi mesi è emersa dall’ombra perché, semplicemente, non c’erano le grandi luci della ribalta ad abbagliarci.
Tranquillizzati i puristi del “questo non è teatro”, possiamo raccontare per iniziare di Ippolito Chiarello, che da 11 anni a Lecce si offre al pubblico in strada con gli esperimenti del suo “barbonaggio teatrale”. Le Unità Speciali di Continuità Artistica (USCA) portano il teatro dove viene richiesto, basta un palchetto e un pubblico pronto a scegliere dal listino una porzione di teatro. Grazie al suo lavoro, le Usca costituiscono una rete nazionale, sparse in diverse città d’Italia, stabilendo un legame con il territorio che dà la misura del valore dell’esperienza in un momento di isolamento come questo. Racconta Chiarello ad Alley Oop: “La funzione del teatro non è tanto produrre qualcosa, ma creare un rapporto politico e poetico con il pubblico. Scambiare emozioni, bellezza, informazioni, per nutrire la comunità. Sono 40 giorni che faccio 2 spettacoli al giorno. Le persone mi dicono che ne hanno bisogno. È un momento di unione, non di divisione”.
Ed è dalla stessa rete che emergono Roberta Paolini e Marica Mastromarino, di Milano. Dallo scorso dicembre portano il teatro ai milanesi direttamente sotto casa, rispettando le norme di distanziamento. Con una telefonata si prende appuntamento e si sceglie il monologo tra le loro proposte, dopodiché le due attrici arrivano con le biciclette, nel rispetto dell’immaginario del delivery. Durante il lockdown, erano impegnate con la Brigata Franca Rame nella consegna di pacchi alimentari alle famiglie milanesi in difficoltà. E lì è nato tutto: con i pacchi, consegnavano pillole teatrali ai condomini, recitando nei cortili o negli androni che permettevano il distanziamento necessario. “Ci ha sorpreso la risposta del pubblico inizialmente – racconta Paolini – che non si era lamentato per i teatri chiusi, ma ci ha sommerso di telefonate fin da subito, mostrando un grande calore”. Così la loro esperienza continua, e prendono appuntamenti teatrali in luoghi pubblici come giardini, cortili, persino nel sottopasso di una stazione. Il pubblico è ridotto, non è nemmeno propriamente teatro di strada, anche se molto gli somiglia. Ma il tipo di esperienza e di relazione sono diverse tanto dal teatro dei palcoscenici quanto dal teatro dei buskers, gli artisti di strada. Continua Paolini: “Non si tratta solo di andare in scena, ma di essere presenti per la comunità che ha bisogno del teatro e ce lo sta dicendo. Così è anche fruibile da tutti, ed è un messaggio alle istituzioni che ci considerano sacrificabili e pericolosi, più dei centri commerciali”.
Leggermente diversa è l’esperienza di Sarah Falanga, a Paestum. Fondatrice e direttrice artistica dell’Accademia Magna Grecia dal 2006, con il progetto “Nutri-menti” apre lo spazio teatrale a due livelli: da un lato mette a disposizione il luogo per quegli attori e autori che vogliano prendere parte a questo progetto sperimentale, dall’altro coinvolge il territorio che ospita i vari momenti della creazione artistica, portati nelle piazze come brevi spettacoli. L’idea è di realizzare un racconto unitario: la storia di alcuni attori che stanno facendo lavori diversi aspettando che i teatri riaprano. Falanga è attrice di spessore culturale e prende molto sul serio la funzione del lavoro dell’attore e la sua responsabilità verso il pubblico. Spiega: “In Italia non siamo educati al teatro: chi fa abbonamento è pubblico antico, ha assimilato per tradizione il valore dello scambio tra pubblico e operatore culturale, dimenticando a volte la funzione sociale dietro a quella di intrattenimento. Per questo gli operatori culturali sono caduti nel vortice del consumismo dell’arte: l’etica del nostro lavoro è stata toccata da queste scelte”. Serve coraggio, e Falanga sottolinea come questo coraggio debba arrivare soprattutto dalle istituzioni, che nel suo caso sono state molto ben disposte: “L’arte è rischio, non solo per gli artisti. Abbiamo un sindaco illuminato secondo cui il teatro è un diritto, e ci ha spianato la strada per realizzare questo progetto”.
Accanto a tutte queste esperienze, che declinano in vari modi la relazione tra attore e spettatore, ci sono stati in questi mesi anche diversi approcci verso l’uso del video, sia realizzando spettacoli per un pubblico che ne fruisce da remoto, sia spingendosi ad indagare la relazione che può nascere tra i due linguaggi della performance e del video. È su questa seconda via che nei giorni scorsi a Milano la compagnia Phoebe Zeitgeist di Giuseppe Isgrò ha realizzato ASPRA-Experimental Video Streaming Document, una sorta di concerto di corpi, un video-documento sperimentale prodotto in diretta. Secondo Isgrò: “Il teatro è un luogo e ha una funzione, che è quella di creare una relazione tra il corpo dello spettatore e il corpo dell’attore. Ma allo stesso tempo il teatro è un linguaggio che può entrare in collisione, cooperazione e cortocircuito con altri linguaggi e noi non siamo mai stati puristi, nemmeno prima del lockdown. Non penso che questo debba diventare un palliativo del rito teatrale, ma che si possa sperimentare, con i nostri corpi vivi, anche se traslati e filtrati. Non è teatro, è un esperimento”. E anche in questo caso, i puristi dello spettacolo dal vivo hanno una loro risposta. Volendo poi soffermarsi sui pregi inaspettati di queste sperimentazioni, indubbiamente ve ne sono: “Questa rilettura – continua Isgrò – ha avuto la possibilità di essere vista da persone sparse per il mondo, da Londra a Tunisi ad Adelaide. Sono esperimenti che si potevano fare anche prima, che si dovrebbero continuare a fare dopo.”
La stessa cosa afferma Francesca Fini, video e performance artist di Roma, che dal 2009 esplora questi linguaggi: “Lo spettacolo digitale non riguarda solo la pandemia, ma può essere introdotto come arricchimento dello spettacolo in presenza. È un linguaggio che ha una sua dignità e può dialogare con gli spettacoli in presenza, che devono continuare, non finiranno a causa della pandemia. Non è necessario che tutti si riconvertano agli strumenti digitali, ma va compreso che non è sufficiente trasferire uno spettacolo online. Per comprendere davvero le potenzialità del linguaggio digitale, occorre creare workshop e corsi di aggiornamento, molti artisti sono digiuni e non sanno da dove cominciare nell’approccio tecnologico. Occorre un doppio sforzo di aggiornamento da parte di artisti e compagnie”.
Ed ecco, “signora mia“, dove andremo a finire. Anzi, a cominciare. O meglio: a continuare.