“Quando una donna muore per mano di un uomo non viene distrutta soltanto una vita, si colpiscono intere famiglie. A pagare le conseguenze dei femminicidi – che pesano per generazioni, duecento anni o più – sono madri, padri, sorelle, fratelli, figli”. Come Giacomo, figlio di una delle tante donne uccise dal proprio compagno con numeri e vicende da brivido. “Gli anni passeranno ma non riusciranno a dividermi dalla mia storia: è una cicatrice costantemente sanguinante sulla quale viene buttato sale per non farla chiudere”. Sono gli “orfani speciali”, prendendo in prestito il titolo di un libro di Anna Costanza Baldry, bambini risucchiati in una spirale di violenza che si è conclusa con l’assassinio della madre da parte del proprio padre. E che nella migliore delle ipotesi vengono allevati da chi resta, dai nonni materni, dagli zii, dalle famiglie che condividono un dolore sospeso, cristallizzato, immobile.
Senza aiuti, dimenticati, in una rimozione collettiva che si traduce nell’ennesima violenza, questa volta strisciante e perpetua, questa volta per mano dello Stato. E allora eccole le dodici storie che Stefania Prandi ci regala nel suo libro “Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta” (Settenove, 2020). Lo Stato, si diceva. Non c’è solo la questione dei risarcimenti, non solo quella di offrire un sostegno per i bambini segnati a vita. Ma anche le spese degli avvocati e di tutti i costi che un processo esige. Senza contare le responsabilità pesantissime di denunce inascoltate. E le famiglie che restano non possono solo “stare a guardare”. Ci sono i bambini da allevare, consolare, curare. C’è il proprio dolore da elaborare (superarlo non è proprio possibile). Ma soprattutto c’è una battaglia da combattere a mani nude.
“C’è chi scrive libri, organizza incontri nelle scuole, lancia petizioni, raccoglie fondi per iniziative di sensibilizzazione e fa attivismo online – scrive Prandi -. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto né alla sfortuna, né alla colpa di chi è stata uccisa, ma ha radici culturali ben precise”. Le dodici storie raccolte da Prandi dal 2016 e il 2019 tessono una tela fitta di dolore e di soprusi, ci raccontano cosa succede “dopo” quando il clamore della cronaca cessa, quando gli altri riprendono a vivere, quando cala il silenzio e al suo posto entra in scena il clamoroso inganno dell’accidente, della casualità, del vaso che cade dal balcone. Come se – dice Prandi in controluce – tutte le vittime dei femminicidi fossero vittime qualsiasi, capitate nel “posto e al momento sbagliato”.
Lo sguardo che Prandi getta su queste famiglie spezzate è delicato e compassionevole. E riapre porte e finestre su vicende che non sono solo private ma devono essere riportate all’interno del territorio pubblico, politico e culturale, strappandole a quella terra di nessuno in cui precipita chi resta. “Siamo nati liberi, dobbiamo rispettare le scelte altrui anche quando sono dolorose, bisogna accettare un amore che finisce, comprendere che si può cadere e rialzarsi senza usare violenza contro nessuno”, scrive Giovanna Zizzo in una lettera alla figlia Laura, uccisa dal padre a 11 anni mentre dormiva. Sembra scontato ma non lo è. Perché ad armare le mani degli uomini contro le donne sono sempre loro, gli stereotipi.
Alle gabbie culturali che imprigionano le relazioni è appunto dedicato il libro “Favole da incubo. Dieci (più una) storie di femminicidi da raccontare per impedire che accadano ancora” scritto a quattro mani da Roberta Bruzzone ed Emanuela Valente (De Agostini, 2020). Nelle oltre 300 pagine di questo lavoro l’analisi logica dei luoghi comuni e dei riflessi pavloviani dell’immaginario mefitico e paludoso che colpiscono le donne si intrecciano, anche qui, alle storie di femminicidio. Si parte dalle favole, appunto, quelle raccontate sin da piccole e che deformano la percezione insieme alla scelta dei giocattoli; si passa alle storie, dieci più una in tutto e si chiude il cerchio con la morale che ogni favola porta con sé.
In questo caso il lavoro di Bruzzone e Valente demolisce pezzo per pezzo il senso comune e con un lavoro chirurgico di ricostruzione restituisce la “vera” morale della favola, quella che se ben digerita avrebbe deviato il corso degli eventi. Un decalogo finale per ogni vicenda, non per colpevolizzare, ma per leggere controluce gli eventi e dimostrare che nulla nasce dal nulla, nemmeno la violenza, soprattutto la violenza. Quella sulle donne ha radici solidissime che transitano nel linguaggio e nel pensiero. Iniziano a solidificarsi sin dalla più tenera età nei ruoli, nelle aspettative, nella costruzione dell’identità. E vengono confermate poi, nel linguaggio collettivo, nelle trame invisibili del tessuto sociale, del lavoro (o dell’assenza di lavoro), della famiglia.
Scardinarle è difficile, spesso sfuggono di mano anche agli occhi più attenti, alle menti più allenate. «Per comprendere davvero di cosa dobbiamo preoccuparci, bisogna fare un passo indietro, entrare nella testa delle donne e degli uomini italiani, dei ragazzi e delle ragazze, dei bambini e delle bambine – scrivono Valente e Bruzzone – . E dobbiamo scendere così in profondità da riuscire a ricostruire fedelmente il percorso che li ha portati a sviluppare schemi comportamentali, valoriali e educativi di chiara matrice patriarcale. Perché ciò che siamo, ciò che pensiamo, il tipo di persone che siamo diventati non è solo il risultato della nostra storia personale».
Ed ecco allora le storie di “Giulietta sotto le pietre”, accoltellata dal fidanzato e lasciata morire soffocata sotto i sassi della campagna salentina che ci insegna come “non possiamo salvare nessuno da se stesso, neanche con tutto l’amore del mondo”; “Cappuccetto rosso è scomparsa con il paniere” è Guerrina Piscaglia, uccisa dal viceparroco del suo paese e fatta sparire per sempre: qui lo stereotipo duro a stanarsi è infido, perché dicono le autrici “anche dietro la persona più insospettabile può nascondersi un manipolatore. Non lasciamoci ingannare, perché l’abito non fa il monaco. Mai”. Fino all’undicesima storia, quella “più uno”, che apre uno squarcio su una delle facce più odiose e meno rappresentate dai numeri: le vicende dei bambini che assistono all’assassinio della mamma da parte del proprio padre. Si chiama “Bambi” l’ultima favola da incubo: vi si narra la storia di Stefano, un ragazzino risucchiato in una sequela di violenze e alla fine piombato in un abisso che lo porterà al ricovero neuropsichiatrico. «Non è solo l’omicidio ad aver reso Stefano quello che è oggi – recitano le pagine del libro -. Sono gli anni di terrore, di violenza assistita e vissuta sulla propria pelle, prima di quel tragico giorno».
I bambini sono le prime vittime di questo corto circuito. Lo sono innanzitutto perché sono indifesi. Lo sono perché le conseguenze della violenza lasciano tracce indelebili, troppo spesso fatali se non riconosciute e curate. La pioniera, colei che per prima ha squarciato il velo su questo volto feroce dei femminicidi, quello meno battuto, senza numeri, senza volti e inghiottito nel dimenticatoio generale, è stata Anna Costanza Baldry che nel suo “Orfani speciali” (Franco Angeli, 2017) ha raccontato i risultati del progetto europeo “Switch Off” mettendo in fila storie e cifre: 1.600 bambini che tra il 2000 e il 2014 sono rimasti senza la madre per atti violenti commessi dal padre. Il libro contiene la famosa lettera di una bambina a sua madre in occasione della festa della mamma. “Lo sai mamma, non è solo l’averti perso che mi fa male. Anche Sabina ha perso la mamma, e un sacco di altre persone oggi 8 maggio non possono farle direttamente gli auguri. Ma quando diventi orfana così, il dolore ti spezza le gambe. E ogni momento devi fare affidamento alle tue forze per avere fiducia negli altri e guardare al futuro”.
Guardare al futuro, al cielo, fidandosi degli altri. Non di tutti ma di qualcuno, magari qualcuno di speciale che ti prenda di peso e ti porti lontano dall’orrore. In “Basta guardare il cielo” di Rodman Philbrick (Bur Rizzoli), tradotto da Beatrice Masini, uno dei due protagonisti è proprio un orfano di femminicidio: il padre ha ucciso sua madre e ora Max, un bambinone fuori misura che tutti considerano un po’ scemo, vive con i nonni. È lui il narratore, la voce delle straordinarie avventure che vive con il nuovo vicino Freak, un bimbo minuto e provato da una rara malattia, ma coltissimo e vivace. “Non ho mai avuto un cervello – è l’incipit – finché non è arrivato Freak e ha lasciato che prendessi in prestito il suo per un po’, e questa è la verità, la pura verità”. Max e Freak uniscono le loro diversità e le trasformano in forza: insieme – il secondo a cavalcioni sul primo – formano “Freak the Mighty”, valoroso guerriero pronto a combattere a colpi di immaginazione e astuzia contro le ingiustizie e i bulli che li perseguitano.
Il romanzo, portato anche al cinema nel film omonimo diretto da Peter Chelsom, riesce a raccontare con delicatezza l’ambivalenza dei sentimenti di Max quando viene sequestrato dal padre appena uscito di prigione: il terrore di somigliargli, la tentazione di credergli quando gli giura di non aver assassinato la mamma. Ma Max non è affatto scemo e sa che là fuori c’è Freak a cercarlo. L’amicizia, il tesoro più grande, lo salverà. E anche se le ultime pagine fanno commuovere anche il lettore più duro, il libro lascia in eredità un messaggio dolcissimo e potente: persino dalle ferite più dolorose si può guarire.