Scuola ferma alla Fase Zero. Riflessioni di una maestra

pencil-1486278_1920

A fine anno scolastico, la valigia di un insegnante si chiude, come succede alla fine di ogni viaggio. Si parte con un bagaglio leggero e si ritorna con ricordi raccolti lungo il percorso, oggetti e foto che possano portare sempre a momenti di gioia, anche quando il viaggio sembra ormai un lontano ricordo. La mia valigia è ancora aperta, in attesa di essere riempita delle ultime cose, ultimi attimi di un anno inatteso, il più difficile mai vissuto. Non riesco a richiuderla.

La guardo e sono tentata. Mi dico che è finita, ma c’è qualcosa che m’impedisce di pensarlo realmente. Sarà che a sancire la fine c’è sempre un evento, un’ultima campanella, un saggio, un canto, un saluto, un abbraccio, una lacrima, un sorriso, un arrivederci o un addio. La fine di un percorso è segnato da riti che adesso più che mai, mi appaiono indispensabili, necessari, per chiudere un cerchio, per definire quello che è stato, per dare un senso al viaggio. L’ultima campanella non è suonata.

Siamo entrati nella fase due, post-lockdown. Poi nella fase due bis. La scuola, però, sembra rimasta alla fase zero. E così, anche il mio percorso di docente, insieme a quello dei miei alunni, sembra rimasto fermo, incompiuto, senza fine.
Sono abituata a pensare attraverso le voci dei bambini, a programmare e riprogrammare la giornata lavorativa più volte, perché la rotta la conosco, ma viene rivista continuamente a fronte dell’imprevedibilità del contesto in cui opero. Ci sono stati, però, imprevisti fuori dalla mia portata e siamo stati completamente travolti dagli eventi.

Siamo andati avanti, caparbiamente, a distanza, per tenere in mano il filo, per non svuotare la valigia dei ricordi, fatta di pezzetti di un puzzle che va a ricostruire un percorso di formazione unico per ciascuno. Sono ritornata a scuola, a maggio, per rendere indietro tutto il materiale degli alunni e delle alunne. Quaderni, astucci, disegni.
Sono tornata in punta di piedi, con la mascherina, in un luogo talmente inanimato da fare paura. Tutto intorno un tripudio di colori, di cartelloni festosi, matite spezzate nei contenitori, penne, risme ancora impilate, pronte ad essere usate. Sono entrata in punta di piedi perchè il silenzio era assordante. I miei passi sembravano un sacrilegio dentro quel tempio che conservava ricordi ed emozioni interrotte. Mi sono guardata intorno e penso che si, davvero la scuola non è perfetta.

Il virus ha scalfito le fragilità della nostra società. E la scuola era fragile ma nessuno se ne accorgeva, a nessuno interessava. Il virus ha fornito il colpo di grazia ad un’istituzione pericolante. Hanno retto le fondamenta: i canali di comunicazione tra docenti e alunni non sono stati mai interrotti. Ha retto la capacità di inventiva, la volontà di proseguire un percorso, seppur accidentato, la straordinaria resilienza dei bambini e delle bambine, che hanno sopportato chiusure e restrizioni inimmaginabili.

Mi sono guardata intorno e non mi sono mai sentita più sola, incompleta e incompiuta, esattamente come quest’anno scolastico. Perché la scuola è prossimità, non distanza. La scuola è incontro. Mi chiedo adesso, cosa diventerà, invece. Possiamo provare a trovare opportunità di cambiamento, nonostante la chiusura forzata, la riflessione indotta e la rimodulazione del percorso obbligata. Questa può essere davvero un’occasione per reinventare la progettazione didattica, per pensare ad approfondire le relazioni, perché è su questo che dovrebbe rinascere una scuola nuova, che diventi la priorità indispensabile di un paese, della società tutta. Abbiamo la possibilità di riflettere profondamente sul ruolo che ricoprono gli educatori e le educatrici, sul compito che la formazione deve avere nella vita di ogni studente, a partire da ciò che ci ha tenuti legati: l’affettività.

Non c’è crescita senza scambio affettivo, non c’è educazione senza pulsioni emotive, non c’è scuola senza le persone che la animano e la realizzano in ogni gesto, in ogni momento, anche al di fuori delle mura di un’istituzione. Ripartire senza dimenticare.
Senza dimenticare quanto importante si è rivelata la tecnologia, per tenerci uniti, per portare fino alla fine quella valigia e riempirla, come sempre, di sensazioni, oltre che di competenze.

Cosa porto? Cosa voglio dimenticare? Nella valigia c’è l’inizio, la sensazione di speranza e fiducia che definisce il mese di settembre. Un nuovo percorso, nuove sfide, occasioni, incontri, errori e prove. Porto il senso di appartenenza, alla comunità scolastica, alla mia classe, ai miei alunni e alle mie alunne. Ci apparteniamo perché viaggiamo insieme verso gli tessi traguardi e nessuno è solo, nessuno viene dimenticato. Porto il senso di gratitudine per quello che ho potuto vivere ogni giorno, fino alla fine di febbraio. Porto lo strappo, improvviso, repentino e senza risoluzione.
Porto la consapevolezza che forse la lontananza è stata solo fisica. Porto la sensazione di un percorso incompleto, mai provata prima. Porto nella mia valigia, i video, le foto, i messaggi e le emozioni che sono arrivate come un’onda e mi hanno riportato sempre a riva, nonostante la tempesta.

E però, rimane aperta, la mia valigia, non riesco a chiuderla. La scuola è finita e io non lo so. La scuola stessa non lo sa, rimasta con le pareti piene di disegni, i portapenne colmi, i cartelloni colorati arrotolati e pronti all’uso, i banchi in ordine sparso, alle finestre i pupazzi di neve. La scuola è finita, ne ricomincerà un’altra, in cui sarà richiesta molta attenzione all’aspetto psicologico, affettivo e relazionale dei bambini e delle bambine, il cui tempo dell’apprendimento, è rimasto sospeso per troppi mesi.

Allora, forse, la mia valigia, riuscirò a chiuderla a settembre. Proprio al contrario, proprio quando si ricomincia, proprio quando dovrebbe essere vuota. Io ricomincerò con questa valigia mezza piena, ricomincerò quando il cerchio sarà chiuso, quando mi sentirò compiuta. Quando sarò di nuovo dietro la mia cattedra.