Abbiamo desiderato così tanto che il Covid ci concedesse una tregua, sognato così a lungo di poter uscire di casa, di riappropriarci delle città e della possibilità di spostarci, che sembra ingrato dire che questa è una fase molto difficile da un punto di vista psicologico. E’ così però, e per tutti coloro che hanno strenuamente resistito durante il lockdown, raccogliendo ogni energia a disposizione per adattarsi e resistere, questo tempo può coincidere con una manifestazione più vivida e un acuirsi della sofferenza.
Questo dolore è comprensibile, non solo come conseguenza della quarantena, del timore di ammalarsi, dei lutti, delle attuali difficoltà economiche, ma anche alla luce delle tante difficoltà con cui continuiamo a confrontarci ogni giorno. Finché siamo stati chiusi in casa non ce ne rendevano conto, ma oggi che finalmente siamo usciti dalle tane, scopriamo nuove fatiche e nuovi affanni.
Relazioni controllate, rarefatte, distanziate: non ci si rilassa mai del tutto, neppure a tavola con i propri familiari più cari. Dopo tre mesi e mezzo di interazioni via schermo, il corpo – motu proprio – li vorrebbe abbracciare ma no, non è possibile, anche se si combatte tutto il tempo con la tentazione di farlo e si cercano ogni volta le parole giuste (“fai come se ti avessi abbracciato”, continuo a ripetere). Ad ogni avvicinamento sospetto nella testa scatta un allarme, come quando al museo inavvertitamente ci si avvicina troppo all’opera d’arte. La prossemica delle interazioni è governata da una nuova danza: “Questo è il mio spazio, quello è il tuo spazio”, nessuno entri in quello dell’altro. “Il tocco umano è andato” e a volte sembra di essere su Solaria, il paese descritto da Asimov ne “Il sole nudo”, nel quale gli abitanti trovano repellente condividere con altri esseri viventi gli spazi e il respiro.
Nel nuovo assetto cognitivo post lockdown, con regolarità alla mente si affacciano pensieri targati Covid-19: mi sarò lavato abbastanza bene le mani? Mi sarò avvicinato o si sarà avvicinato troppo? Ma cos’è troppo e soprattutto cos’è abbastanza protettivo in un mondo governato da regole contraddittorie e per lo più lasciate a scelte discrezionali? Luogo che vai, regola che trovi: sono passata da bar in cui nessuno indossava la mascherina, a supermercati nei quali, oltre alla consueta disinfezione, si dovevano indossare sulle mani scomodissimi sacchettini rettangolari e si veniva aspramente rimproverati se il sacchetto non stava su, almeno fino al polso.
I luoghi hanno perso la loro familiarità e alla libertà di movimento si è sostituito l’accesso misurato, controllato, verificato, con il contagocce e l’inevitabile coda. L’immagine delle nostre città e dei luoghi conosciuti è stata alterata, trasformata dalla sottrazione (di tavolini al bar, di poltrone al cinema e a teatro, di asciugacapelli nelle piscine), modificata dalla presenza di spazi vuoti, distanze e buchi. Un nuovo vuoto ci circonda e questo produce in molti una sorta di distopia esperienziale e dunque esistenziale.
Il disorientamento, oltre che visivo, è anche uditivo: abituata alle risate allegre e chiassose degli studenti negli spazi comuni dell’università, oggi mi ritrovo ad abitare aule deserte e silenziose e ad interagire con studenti mascherati di cui a malapena riesco a sentire la voce.
Disorientamento, straniamento, alcuni lamentano anche un inceppamento nella percezione del tempo. In molti ammettono di sentirsi “fuori dal tempo”: qualcuno ha l’impressione di essere “ancora a marzo e un po’ in inverno” e magari, come me, ha ancora i cappotti in bella vista; altri si sono “resi conto della primavera a maggio” o “sono già con la testa a settembre”. Per coloro che sono stati chiusi in casa, il tempo è stato soltanto una ripetizione di gesti sempre uguali (il corpo, ci dicono gli studi, rafforza la memoria e quando lo teniamo fermo i ricordi sono più deboli); per chi ha gestito in prima linea l’emergenza, lo scorrere del tempo è stato divorato dall’impatto traumatico di turni massacranti e dal confronto quotidiano con il dolore umano, la paura e l’orrore.
Insomma, relazioni, luoghi e tempo si sono scomposti per come li conoscevano e si sono riaggregati prendendo vie inconsuete. Non sorprende, allora, che siano in tanti a riconoscersi nell’ormai nota sindrome della capanna: poiché in nessun luogo che non sia la propria casa oggi ci si può abbandonare all’abitudine, all’abbraccio, allo scambio vis a vis senza mascherina, con fatica ci separiamo dalle mura domestiche e con sollievo le ritroviamo la sera.
In aggiunta a questo, come se non fosse abbastanza, la città e il mondo si sono come svuotati delle possibilità esperienziali, restringendo, assieme al movimento, anche i confini della nostra progettualità: là dove c’erano programmazione ed esplorazione, ci viene chiesto di accorciare l’orizzonte e di limitarci a vivere l’oggi, al più il domani; solo pensare a settembre sembra un azzardo. Forse è più facile per le generazioni che non hanno spinto troppo in là i desideri e non hanno immaginato di poter esplorare il mondo. Di certo questa pausa è molto difficile per chi ha vissuto fino ad oggi in un’epoca di globalizzazione che prometteva possibilità e confini illimitati, in primis adolescenti e giovani adulti. Progetti avviati, sogni da realizzare, tappe della vita da raggiungere: sono la generazione che vedo più sconsolata, rammaricata e sofferente, disperatamente a caccia di risposte, di previsioni e di soluzioni ad ogni incertezza sul futuro. “Il segreto dell’esistenza umana non è vivere per vivere, ma avere qualcosa per cui vivere”, scrive Dostoevskij.
Insomma, la ripresa ad uscire non è sinonimo di ritorno alla vita che conoscevamo; non siamo più “in sospeso” ma forse più “in bilico”, funamboli in cerca di nuove spinte motivazionali e nuovi equilibri.
Quella successiva al lockdown, avvertono tutti gli studi internazionali condotti sui periodi di quarantena, è una fase critica da non sottovalutare per l’aumento di disturbi mentali, in particolare depressivi e ansiosi. Più a lungo si protrae, più è facile che si sviluppino sentimenti di confusione, depressione, rabbia e disturbo da stress post traumatico, acuiti, tra gli altri fattori, anche dalle conseguenze economiche, rivela uno studio recentemente pubblicato su Lancet. In una ricerca condotta in Canada durante la SARS e pubblicato nel 2013, nei bambini sottoposti a quarantena l’ansia aveva punteggi quattro volte superiori a quelli di bambini che, pur avendo vissuto la stessa pandemia, non erano stati isolati. Allo stesso modo, depressione, irritabilità, insonnia e altri disagi emotivi erano quasi cinque volte superiori nei genitori coinvolti da misure restrittive. Oltre ai nuovi esordi, chi già prima dell’epidemia soffriva di disturbi psicologici, ad esempio depressivi, può presentare un aumentato bisogno di cure. Dati poco rassicuranti, soprattutto se si considera che le pandemie studiate fino ad oggi non hanno previsto quarantene di durata paragonabile a quella che abbiamo vissuto in questi mesi e simili ripercussioni economiche.
Poiché l’impatto di quanto stiamo dicendo non riguarderà solo i servizi di salute mentale, è indispensabile una maggiore attenzione alla comunità e al suo benessere psicologico da parte di chi in questi giorni sta ripensando il futuro dell’Italia. Persistere in una politica insensibile a questi aspetti, ignorare l’allarme proveniente dalle ricerche scientifiche e trascurare i risvolti psicologici delle scelte economiche, educative e culturali nella riprogettazione dell’Italia, vuol dire ritrovarsi di fronte ad un aumento della sofferenza che a livello sociale è prodromo di rabbia e purtroppo violenza. Dalla sofferenza all’angoscia e dall’angoscia alla disperazione rabbiosa il passo può essere breve, con costi sociali elevatissimi.