Silvia Colasanti: “Non dateci sovvenzioni, fateci tornare a suonare nei teatri”

Foto di Max Pucciariello

Foto di Max Pucciariello

E’ un rapporto molto speciale quello che lega Silvia Colasanti al mito. Una relazione profonda, coltivata grazie a solide letture, molto studio e il coraggio di ammettere che attraverso la musica possiamo concederci di “dire cose già dette”. Romana, un diploma al conservatorio della sua città e molti anni di perfezionamento tra l’Accademia di Santa Cecilia e la blasonatissima Chigiana, Colasanti è oggi una delle più brillanti protagoniste della scena musicale contemporanea.

Sue le opere acclamate dal pubblico e vezzeggiate dalla critica come “Proserpine”, “Minotauro”, “Requiem, stringeranno nei pugni una cometa”, entrate di diritto nella programmazione delle scene musicali più importanti, dal Festival dei due Mondi di Spoleto a La Verdi di Milano passando per la Fenice di Venezia e il Maggio musicale fiorentino. Dopo mesi di serrata generale e a una manciata di giorni dalla riapertura dei teatri Colasanti lavora alla sua ultima “creatura” commissionata, ancora una volta, dal Festival di Spoleto. “Dobbiamo reinventarci la musica dal vivo: quello che chiedo allo Stato, è la possibilità di lavorare, di trovare un modo sicuro di stare sulla scena davanti a un pubblico”.

Maestra, dopo il successo di “Requiem, stringeranno nei pugni una cometa” a cosa sta lavorando?
In questo momento sto componendo tre monodrammi per il Festival di Spoleto, Arianna, Fedra e Didone: tre lettere di donne abbandonate o ripudiate tratte dalle Eroidi di Ovidio. Il testo è sotto forma di lettere, c’è quindi tutto un lavoro di scavo, per me meraviglioso, e di traduzione in musica del flusso di pensiero di questi personaggi femminili. E c’è il tema dell’abbandono, del dolore, del ripudio. Devo dire che mi sto appassionando molto a questi personaggi: la grandezza di Ovidio è anche quella di riuscire perfettamente a tessere una trama dolorosa, intrecciata con la nostalgia, la seduzione, l’aggressività, il rancore. La narrazione empatica di tutti gli aspetti, anche quelli più oscuri di queste donne è il fil rouge che attraversa le vicende di Arianna, Fedra e Didone.

In quale momento della giornata compone? Ha un metodo, una consuetudine?
Si compone sempre. Non c’è un momento privilegiato nella giornata, anche perché trasporre in musica prelude tutto un lavoro precedente di immersione e studio dei personaggi. Quindi rispondendo alla domanda direi che compongo tutto il giorno. Poi certo, c’è un momento in cui metto nero su bianco la musica: e per me di solito accade la mattina presto, quando la mia casa è ancora avvolta dal silenzio, in attesa del risveglio dei bambini. Ecco, per me quello è un momento “perfetto”, in cui mi viene più facile riflettere e sintetizzare l’idea sulla quale sto lavorando.

La quarantena: cosa ha significato per lei questo momento? E’ stato fonte di calma, ispirazione o al contrario è un momento che impatta negativamente sulla sua opera?
Amo la solitudine ma quella di questi mesi è una condizione  forzata e ansiogena, di grande dolore. In questi mesi non mi sono fermata: ho continuato a studiare e a scrivere. E ho toccato con mano che questa tragedia che il mondo sta vivendo si è insinuata nel mio lavoro, anche inconsciamente. Nel dolore che ci circonda è fondamentale conservare l’autenticità dei vissuti: sono spicchi di verità che per quanto dolorosi sono necessari.

Il rapporto tra il pubblico, quello meno allenato, e la musica contemporanea è sempre stato problematico. Secondo lei c’è un modo per abbattere il muro e accorciare le distanze?
La musica contemporanea è stata considerata lontana nel secolo scorso nel periodo delle avanguardie perché c’era necessità di sperimentare nuove strade che hanno sbilanciato l’equilibrio tra l’assetto concettuale e quello comunicativo. Ovviamente il risultato è stato tutto a favore dell’aspetto concettuale e a scapito di quello emotivo. Ma è una pagina che può dirsi definitivamente chiusa. La mia generazione è stata fortunata, ci siamo liberati da questo condizionamento, abbiamo recuperato l’attenzione all’aspetto comunicativo. La musica è questo: la più alta forma di comunicazione, quella di un pensiero che si racconta in modo profondo ma immediato e istintivo. E oggi possiamo dire che la musica contemporanea non fa eccezione.

Oggi la musica può ancora significare? Può parlare al cuore del mondo contemporaneo?
Certo, e anzi deve farlo: deve  parlare al cuore del mondo contemporaneo. Serve un rinnovamento che non è solo evoluzione, ma ricerca, dialogo con il pubblico, anzi secondo me è proprio il linguaggio che va usato per il pubblico, anche dicendoci cose già dette. Non è più necessario stupire, scandalizzare: si possono usare linguaggi nuovi per dire cose “antiche”.

Qual è l’influenza della critica nella scelta del linguaggio? Una compositrice è libera nella scelta espressiva o anche mentre compone fa i conti con quella vocina che chiede perfezione e innovazione?
Anche la critica ha avuto la sua evoluzione: non c’è più quella visione del critico con il ditino puntato contro. La critica è fondamentale, ma no, non deve essere condizionante, deve sparire quando componi. Se leggo una critica intelligente sono stimolata. Anche io ho cominciato nascondendomi e arrivare a certi punti di esposizione è stato per me un traguardo. Non c’è rifugio sulla faccia della terra che tenga: l’arte ha molto a che fare con la verità, se bari, se dissimuli, se ti nascondi ci sarà sempre qualcuno che se ne accorgerà.

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Foto di Max Pucciariello

Esiste una questione femminile (o femminista) nell’ambito musicale?
All’inizio del secolo scorso abbiamo iniziato a contare qualcosa: c’è però molto terreno da recuperare. Il millennio che ci distanza dagli uomini non è certo un lasso di tempo che puoi colmare in fretta. Venendo alla mia esperienza devo dire però che non ho mai subito episodi di discriminazione. Alla fine il lavoro paga.

Non solo musicista, ma anche compositrice: la nicchia della nicchia, l’elite della elite. Come ci si riesce?
Ho iniziato a studiare pianoforte a 6 anni. Ma mi piaceva di più comporre già adolescente, a 13 e 14 anni, e ho subito capito che era quella la mia strada. Non avevo alle spalle una famiglia di musicisti. Non ho mai pensato che ne avrei fatto una professione. Ho continuato a lavorare e a studiare ma più come un sogno. E poi un giorno mi ci sono trovata dentro.

Si è mai trovata a dover fare i conti con scelte più commerciali?
Ho avuto una formazione molto solida e la mia sfida è sempre stata quella di non rinnegare quella complessità: è una complessità che affonda le radici nel passato ma che appartiene anche al nostro presente e per me si è sempre e solo trattato di trovare la strada per raccontarla. Non ho mai neanche cercato di banalizzare il linguaggio per arrivare prima, perché poi se lo fai il linguaggio cambia, diventa qualcos’altro, diventa altra musica. Il presente è complesso: non puoi semplificarlo. Il rispetto della storia, il confronto, anche se ti abbatte, deve sempre stare al centro. D’altra parte non c’era nemmeno ragione di farlo: io mi rivolgo al pubblico delle stagioni di repertorio e quel pubblico ha gli strumenti per decodificare la mia musica.

Nel suo tempo libero, cosa ascolta? Quali sono i suoi compositori d’elezione, quelli che hanno lasciato un’impronta sulla sua musica?
Amo Mahler, Berg, Shostakovic, ma sono anche una grande appassionata di musica barocca. Ascolto Caccini, Cavalli, ma la mia passione è Monteverdi. Per me il barocco è pane quotidiano: è eterno, non conosce tempo e a me oggi parla moltissimo.

La pandemia ha congelato lo spettacolo, la musica, l’arte. E adesso che si fa?

Dobbiamo reinventarci la musica dal vivo: quello che chiederei allo Stato, è la possibilità di lavorare, di trovare un modo sicuro di stare sulla scena con un pubblico davanti. Non le tutele, non soldi: io non ne voglio. Ma voglio continuare a fare il mio lavoro. E il mio lavoro implica uno spettacolo che esiste solo dal vivo: le esibizioni che ho visto in questi giorni di quarantena con gli artisti che si esibivano a distanza hanno poco a vedere con la musica e la sua magia.

(ha collaborato Marco Mazzoleni)