La trasformazione digitale è stato l’obiettivo principale delle aziende che negli ultimi mesi sono state private dall’oggi al domani della propria dimensione fisica, ma c’è chi di Made in Italy, moda sostenibile e manifattura digitale parla, divulga e produce già da tempo, nei distretti produttivi di cui l’Italia è ricca, e lo fa con un grande seguito. Il digitale, ancora spesso considerato un comparto di vendita marginale, una parentesi riservata ai giovani o un accessorio per esibire una presunta modernità, durante il lockdown è diventato il sales touchpoint decisivo per continuare a vendere. Ma presenza online ed e-commerce non sempre bastano.
Adottare una strategia digitale non sostituisce il contatto umano e il dialogo col cliente. Pensiamo allo shopping “analogico”. Scegliamo a quale negozio affidarci perché ci fidiamo della persona che ci accompagna nell’acquisto e del suo gusto, perché la sentiamo simile a noi. Proprio per questo, tanti negozi di retail hanno continuato a vendere online durante il lockdown. La serranda calata non ha interrotto la sintonia che si era creata col nostro commerciante di fiducia, abbiamo continuato a cercare un contatto con la storia e i valori dei negozi che ci avevano già parlato con costanza e autenticità adottando un tono di voce in cui ci riconoscevamo pre-lockdown. La stessa logica vale per quelle aziende manifatturiere che, avvalendosi di store online e di storytelling empatico, hanno mantenuto costante il loro fatturato resistendo alla dura messa alla prova degli ultimi tre mesi del mondo della moda.
Collezioni minimali e cliente al centro
All’interno della rubrica #uncaffècon sul profilo Instagram di Alley Oop , ne ho parlato con Gaia Segattini, art director, founder e amministratrice di Gaia Segattini Knotwear, che da anni ci parla di manifattura sostenibile e made in Italy, contribuendo a creare e formare un pubblico critico e attento, e lo fa trans-media: su riviste, portali, blog, festival, e anche su Instagram, in un dialogo quotidiano. L’ultimo periodo ha dimostrato che il prodotto che funziona deriva, oltre che dalla competenza, da un pensiero trasversale che rende conto di tutto quello che gira attorno al prodotto (attitudine commerciale, comunicazione, marketing, business).
Questo è il mindset di aziende come Gaia Segattini Knotwear e altri esempi di manifattura digitale virtuosa: FunkyMama di Justine Romano, La Marchigiana di Daniela Diletti, Raptus and Rose di Silvia Bisconti. Sono donne, sono competenti e sono determinate a portare i propri valori di moda etica nella linea produzione. Da dove sono partite? Imparando le tecniche, conoscendo i materiali, ma partendo da collezioni minimali e sviluppando e testando i prodotti a strettissimo contatto con i clienti. Insomma, la manifattura digitale che funziona è quella che prototipa, come ci insegna il design thinking. Non necessariamente l’obiettivo iniziale di chi si occupa di manifattura deve essere quello di far diventare la linea più grande, i primi progetti possono essere una palestra.
Il modello Segattini: filati di valore ed empatia
Nel suo stile leggero e ironico, Gaia Segattini definisce le vendite del suo negozio online “videogiochi”. A chi si occupa di processi verranno in mente parole come “lean” e “agile”, o il modello del magazzino minimo di Toyota. Gaia Segattini Knotwear è una start up innovativa per vendita online di maglieria flash sale: l’azienda non ha un magazzino né giacenze. Le piccole produzioni fanno unicamente uso di filati di giacenza, come dice Gaia “ancor più che per un proposito di sostenibilità per una questione di buon senso, quando uno deve cucinare il pranzo prima guarda il frigorifero”. Non ci sono sprechi, i materiali sono a km zero, e lo stesso vale per il packaging, che viene prodotto dagli scampoli dei filati, come nel caso delle custodie per le collane.
Di sostenibilità, Gaia parla soprattutto in riferimento alla filiera: le filiere sono fatte di persone, che oltre a essere pagate il giusto con contratti regolari, bisogna imparare a conoscere e considerare nella loro unicità. Il designer nella moda è il 15% nella costituzione del prodotto, ed è giusto che il prodotto venga ricevuto dal consumatore come prodotto di una pluralità di persone. Dietro ai capi che indossiamo ci sono persone che li hanno fatti, con le loro storie. “Mi vesto di storie anziché di abiti”, mi dice nell’intervista, e in effetti è un buon modo di inquadrare il successo della manifattura digitale che funziona. Al consumatore interessa la storia dell’oggetto che acquista: nella fase di acquisto diamo un valore aggiunto a quello in cui ci identifichiamo e vogliamo entrare in contatto con chi parla la nostra lingua. È proprio per questo che ama i negozi pop up: il successo del suo store online non la tiene lontana dal piacere – nondimeno strategico – di incontrare le persone che avvicinano il suo brand e i loro bisogni. Nella convinzione che solo il cliente può confermare all’azienda di essere sulla strada giusta. Nel negozio fisico, anche in un pop up aperto un weekend, si decreta il successo della manifattura digitale che funziona.