Immaginate una bella coppia: si sono incontrati, piaciuti, innamorati, sposati. Hanno avuto un bambino e lo amano teneramente. Come tutti, hanno vissuto giorni di passione, altri dimenticabili, altri ancora decisamente da dimenticare. Ma con il passare del tempo i dissapori crescono e con questi la distanza e la solitudine, finché uno dei due decide che è meglio separarsi.
Marriage story, presentato all’ultima mostra del cinema di Venezia, ha appena incassato sei candidature alla 77esima edizione dei Golden Globe e offre spunti interessanti per parlare di un tema che, solo in Italia, riguarda migliaia di persone: secondo i dati Istat, nel 2018 in Italia gli uomini divorziati erano poco più di 681 mila e le donne poco più di 990 mila.
Il film, prodotto da Netflix, diretto da Noah Baumbach, è candidato tra l’altro ai Golden Globe come miglior film. Con realismo disincantato e ironia che richiama Woody Allen, resi possibili dalla bravura degli attori – in primis Adam Driver e Scarlett Johansson che interpretano i protagonisti Charlie e Nicole – il film ci parla dell’amore che si trasforma in non sopportazione, di tenerezza che diventa rabbia, di apparente risolutezza e profonde confusioni, di possibilità di scelta che si restringono fino a diventare una sola: “E cancello il tuo nome dalla mia facciata”, direbbe De Gregori. E’ possibile fare qualcosa per salvare un matrimonio in crisi?
Sappiamo che alcuni comportamenti possono contribuire ad accendere la crisi e ciò che accade a Nicole e Charlie, da questo punto di vista, è estremamente comune. Capita spesso che in coppia uno dei due si metta da parte, metta a tacere i propri desideri, rinunci ai propri obiettivi, inserendosi in una dinamica di rinuncia che con il tempo diventa insostenibile. Quali sono i miei valori? Che cosa desidero? Sono proprio io a volerlo o lo sto facendo solo per l’altro? E cosa sto facendo per realizzare il mio desiderio e muovermi verso i miei valori? Queste domande, che spesso passano in secondo piano nella vita di coppia, sono fondamentali nel lavoro terapeutico.
Alcuni nel rispondere scoprono di non volere qualcosa per se stessi ma per l’altro (quante volte nel mio studio mi sono sentita dire “voglio che lui/lei cambi”), altri riconosceranno di aver fatto delle rinunce (come accade a Nicole nel film) per seguire i desideri del proprio partner, allontanandosi da valori, aspirazioni e progetti personali; potranno emergere desideri soffocati da tempo e mai davvero abbandonati per i quali non si sta facendo nulla. Molti, infine, alla domanda relativa al “quando iniziare ad impegnarsi” per muoversi verso i propri valori, scopriranno di cullarsi da tempo nel pericoloso mantra “domani è un altro giorno”. Alcuni si perderanno nell’accusare il partner di aver imposto una scelta, ritenendolo/la responsabile per l’infelicità che sentono. Ma se poniamo in mani altrui la nostra felicità e il nostro benessere ci condanniamo ad una vita di insoddisfazione e astio. Se poi per essere felici abbiamo bisogno che qualcun altro cambi, difficilmente lo saremo.
A complicare situazioni già critiche sotto il profilo psicologico, può subentrare poi anche la guerra in Tribunale. Tornando al film, si ha l’impressione – ancora una volta – che Charlie e Nicole non abbiano una chiara volontà e che ripongano le decisioni nelle mani di avvocati il cui intento è inasprire il conflitto, vanificando ogni occasione di ascolto e di collaborazione. L’adorabile avvocato divorzista “umano” (interpretato da Alan Aldo), ha vita breve nel film, perché nell’arte della pirotecnia forense, di cui Laura Dern è regina, l’umanità è un intralcio.
Nel gioco al massacro ordito dagli avvocati, Nicole e Charlie, come tante coppie, arrivano a dirsi cose che non pensano e pensano cose che non si dicono. Già, perché al di là dell’odio e del risentimento in questa coppia c’è altro, tanto altro e noi spettatori lo sappiamo avendo sbirciato per qualche breve istante nella stanza dell’analista cui si sono rivolti. Ma questo “altro” è muto, questo sentimento che fu e che in parte è, non è materia che Nicole e Charlie possono (sanno) condividere. Resta nascosto dietro sguardi silenziosi, abbozzato in mezze intenzioni, implicito in gesti imbarazzati. Parola scritta su un foglio di quaderno.
Cosa sarebbe successo se solo avessero provato ad ascoltarsi (invece di mettere le parole in bocca all’altro), di parlare (invece di “farsi le domande e darsi le risposte” e rimuginare da soli), di imparare a comunicare le proprie emozioni (quanta tristezza inespressa e quanta rabbia distruttiva rovesciata addosso all’altro), di non concentrarsi solo su ciò che non funziona (a volte nelle separazioni sviluppiamo un “lato cieco”, un’attenzione selettiva per ciò che non funziona)?
Non lo sapremo mai. Eppure in molte coppie “qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure”. Se non a restare insieme, può almeno aiutare a separarsi con umanità.