Ho preso una vacanza.
Come sempre sono partita con il mio piccolo trolley camouflage, unico bagaglio a mano, leggero di contenuto, pieno di voglia di esplorare, curiosare, imparare tutto di questa nuova terra, della sue radici, dell’aria che si respira, del profumo dei suoi cibi, dei modi della gente, dei loro sogni e delle loro paure.
Così, ieri mattina mi sono svegliata in vacanza.
Come facevo spesso sin da ragazzina, ho pensato di essere una di loro. Mi ha sempre divertito questo gioco. Come è vivere al mare, o in una grande metropoli americana, o in un villaggio sperduto in montagna di inverno? Per capire e imparare, gioco, mi spoglio dei mie abiti e di chi sono e vesto quelli di chi mi ospita per entrare sotto la loro pelle, per sentire quello che provano loro, per vedere con i loro occhi le sfumature che ai miei sfuggirebbero.
Così, ieri mattina mi sono svegliata in vacanza e ho iniziato a giocare. Ieri mattina mi sono svegliata una donna in fuga. Un essere umano che ha abbandonato tutto e che vive un nuovo status giuridico. Ieri mattina mi sono svegliata una rifugiata.
Dimenticavo, sono in Giordania e vengo dalla Siria come altre circa 650.000 persone.
Ho lasciato tutto e sono arrivata al centro di registrazione di UNHCR ad Amman. Mi accoglie una donna meravigliosa, Najwaa, che è protection Officer dell’Agenzia e coordina il centro che gestisce fino a 5.000 persone al giorno. Najwaa mi spiega: noi rifugiati non ci nascondiamo, noi appena entriamo in un Paese chiediamo aiuto per poterci registrare, per esistere di nuovo, per rinascere da un incubo, per far sapere che ci siamo, per sentirci meno soli e forse meno disperati.
Ci sono così tante persone in queste stanze fatte di muri anche di plastica e con troppa aria. Ora però quasi l’aria mi manca. Ci sono tantissimi bambini. Accarezzo qualche testa. Sono piccoli e tantissimi. Najwaa mi spiega che la metà dei rifugiati sono bambini, ragazzi fino ai 17 anni. La metà. Mentre mi mostra come registrarsi, una macchina scannerizza l’iride perché all’iride abbinano i dati di ogni persona cosicché possa accedere ai servizi assistenziali offerti, guardo un ragazzo che lo fa prima di me. Sullo schermo compare una sua foto da bambino mentre la macchina stampa in un arabo fitto tutti i documenti abbinati. Mi spiegano che la registrazione deve essere rifatta ogni anno e la foto aggiornata ogni tanto.
Respiro. Vuol dire che questo ragazzo è forse da sempre un rifugiato. Ecco questa volta l’emozione sale più violenta. Ma non posso, sono solo all’inizio e devo capire come funziona questa macchina umanitaria. Come si esce da questo girone dell’inferno, come si torna a casa da una vacanza così. E poi cosa si fa.
Mi chiedono se ho figli, certo ho le mie tre figlie, e se ho un marito. No, rispondo, sono divorziata. “Perfetto!” dice questo angelo custode che mi hanno dato e che ha un pugno di ferro in un guanto di velluto. “Perfetto?” ripeto io. Sì, così sono una single mother, mi risponde lei.
Allora vediamo se ho capito bene; essere una madre sola fa di me potenzialmente una rifugiata di categoria speciale. Non sono certa questo mi dia sollievo. Cerco conforto o conferme. Incrocio gli occhi delle molte donne in attesa. Sole. Con bambini di ogni misura appesi ovunque. Mi sorridono tutte quasi a testimoniare che stanno bene, che tutto andrà bene. Hanno occhi tranquilli e sguardi rassegnati, forse solo pazienti.
Dicevamo, le donne sole con figli sono una delle categorie speciali che, se in condizioni di estrema povertà e difficoltà, possono accedere alla cash assistance. Arrivare qui ti fa pensare che il mondo si sia fermato. Ma non è così! Tutto quello che sapevo è cambiato, evoluto. Basta distribuzione di beni identici per tutti. Più si è capaci di dare denaro, più si restituisce dignità e capacità di scelta alle persone. Il denaro viene maneggiato con estrema cura e responsabilità dalle persone che tornano ad essere quello che erano. Uomini, donne, famiglie. Famiglie con capacità di spesa. E poi così, mi spiegano, si aiuta anche il mercato locale evitando la nascita di un mercato secondario di beni distribuiti e scambiati per piccole somme di denaro capaci di soddisfare bisogni più urgenti.
Come rifugiata non potrò mai avere un conto in banca, non è tra i miei diritti, ma potrò ritirare la somma – se assegnatami – ogni mese ad un bancomat semplicemente con uno sguardo. Ancora una volta sarà infatti la mia iride abbinata ai miei dati a darmi accesso. Basterà toccare lo schermo in basso a destra dove dice “rifugiati”.
Vorrei anche un lavoro. Chiedo sempre a Najwaa. Ai rifugiati è concesso lavorare in alcuni settori come l’agricoltura o le costruzioni, ma non sono molti i permessi distribuiti e il rischio è di trovarsi nel mondo del lavoro informale. Penso che non mi capiterà. Poi mi fermo e ripenso. La disperazione, la fame, il freddo non lasciano spazio a scelte e giudizi. Sento nascere dentro di me un urlo. Un urlo di giustizia. Un urlo di ingiustizia.
Claudia Parzani (partner di Linklater, presidente di Allianz Italia e vicepresidente di Borsa Italiana) è in viaggio in Giordania, basata ad Amman, con il regista Daniele Abbado e Giovanna Li Perni di UNHCR, per visitare i luoghi dei rifugiati e comprendere il lavoro di UNHCR sul campo. UNHCR è l’Agenzia dell’ONU per i Rifugiati. Presente in 134 paesi del mondo, è impegnata a salvare vite umane, a proteggere i diritti di milioni di rifugiati, di sfollati e di apolidi, e a costruire per loro un futuro migliore. Oggi nel mondo vivono 70 milioni di persone che sono state costrette a fuggire dal proprio paese. Il gruppo più numeroso di rifugiati è costituito dai siriani, poco meno di 7 milioni. Oltre 650 mila siriani – il 48% minorenni – sono ospitati in Giordania, il secondo paese al mondo con il più elevato numero di rifugiati accolti per numero di abitanti (che sono in tutto 10 milioni). La Giordania accoglie anche rifugiati di altre 24 nazionalità.