Perché non sei una role model se ti lasci chiamare come un maschio

5ff39860-e4f7-4357-a359-f5b0cb171db9

Chi si preoccupa di uguaglianza di genere è sempre più convinto che una delle chiavi di volta sia la presentazione di role model alle bambine e alle ragazze. E’ il filone delle “Storie della buonanotte per bambine ribelli”, delle numerose iniziative di mentoring avviate da aziende e associazioni, della ricerca sempre più spasmodica di donne da mettere sui palchi e nei giornali. Donne eccezionali. Donne che ce l’hanno fatta, dimostrando così a tutte le altre che “è possibile”.

Poi però queste donne, o molte di loro, lasciano che la propria professione venga declinata al maschile.

Sono professori universitari, direttori generali, amministratori delegati, ministri, segretari.

b3edebc7-eb49-473e-b894-c776a7d81ed4Usando un linguaggio obsoleto, nato prima che proprio loro, le role model, riuscissero a incarnare quei ruoli, queste donne e chi ne racconta le gesta disperdono un’enorme parte del valore che vorrebbero creare. Usando le parole sbagliate, accade infatti che il role model esista solo “in presenza”: devo vederti per sapere che sei una donna.

I role model (e le role model) funzionano perché estendono la nostra capacità di immaginazione. Una donna che raggiunge un traguardo controbilancia (a fatica) le numerose veline e letterine che la televisione italiana ancora ci propugna.

Mia figlia vorrebbe essere bella e vestita di paillette, ma le Storie della buonanotte per bambine ribelli le fanno intravedere anche altre possibilità – pur pesando, rispetto alla mole di messaggi che riceve in altre direzioni, molto meno dell’1%. Ecco, è questo il punto. Un libro, un articolo di giornale, un incontro di qualche ora… e poi torniamo in un mondo in cui le professioni “importanti” hanno nomi maschili, mentre le altre, quelle più comuni, si declinano su chi le indossa.

L’immaginazione, così, non ce la fa. Resta in bocca il sapore dell’eccezionalità delle role model: così uniche da essere messe sui giornali, così eccezionali da rappresentare una categoria a parte, che non viene nemmeno rappresentata dal linguaggio di tutti i giorni.

L’altro giorno il moderatore di un convegno diceva di essere “agnostico” sul tema della declinazione di genere dei titoli professionali. Lui, diceva, “usa il neutro”. Ebbene, il neutro non esiste (o esiste di rado, in casi disciplinati nei dizionari): il neutro è maschile. E chi si professa agnostico, mentre al tempo stesso ritiene di essere moderno e spingere per la parità di genere, entra nel gruppo dei “bystander” (spettatori): coloro che, ignorando quanto ogni dettaglio conti quando si lavora su un cambiamento culturale, fanno quasi più danno di chi rema contro.

ff603172-756f-447f-bb3e-6216684f07daSe abbiamo deciso che i role model sono importanti – e certamente lo sono – non sottovalutiamo quanti ne stiamo perdendo semplicemente perché non facciamo evolvere la lingua italiana insieme alla società. Un esempio? Un avvocato (donna) di grido che si batte per i diritti delle donne potrà avere una copertina, ma 120.000 persone, quante sono oggi in Italia le donne che esercitano la professione di avvocato, avrebbero un impatto ben più forte sulla nostra immaginazione… se solo si lasciassero chiamare “avvocata”.