Ci sono ricordi d’infanzia che restano impressi nella mente. Quello di Martin Eden, protagonista dell’ultimo bellissimo film di Pietro Marcello presentato a Venezia 76 e ancora nelle sale italiane, è il ricordo di un ballo con la sorella: in una scena color seppia, i due bambini sono sorridenti, affiatati e complici. Mentre i corpi danzano e incantano in un movimento a rallentatore, sentiamo affiorare una gioia. E’ una gioia che conosco bene, che ritrovo in certe immagini della mia infanzia e che parla di appartenenza. Martin in quella scena appartiene: ad un contesto culturale, ad un quartiere, ad una famiglia, ad un corpo. Il corpo è linguaggio primario – perché in certi contesti più umili il mondo si vive, non si pensa – e Martin è un’esplosione di vitalità, fame, desiderio, emozioni e piacere. Giovane adulto lo vediamo usare la forza fisica contro un arrogante che se la prende con un ragazzino di buona famiglia. Poi assistiamo mentre guarda con occhi azzurro-cielo spalancati e tracimanti di desiderio una casa, un mappamondo, una ragazza e i suoi lineamenti. E ancora camminare con andamento fiero e gongolante, tenendo stretti a sé due libri ricevuti in dono. Poi, con voracità, fare scarpetta nel piatto e gustare il boccone. O lanciare sguardi che hanno “fame di vento e sete di fuoco”, per dirla con Alighiero Boetti.
Quando Martin, giovane marinaio senza averi e con diploma di scuola elementare, scopre la lettura, il piacere della conoscenza e il desiderio di “impararsi”, davanti a lui si spalancano mondi, possibilità di “accesso” fino ad allora sconosciute, altri ambienti, altri lavori, altre classi sociali, una donna e l’amore. Il mondo si riempie di bagliori, uno più bello e irraggiungibile dell’altro, e il corpo si popola di desiderio di elevazione. La prima parabola che il film ci descrive è allora quella sociale, dall’umile provenienza familiare all’universo “borghese” grazie all’istruzione, un’ascesa tanto ostinatamente perseguita quanto sofferta. Martin si allontana, infatti, dal mondo cui appartiene, dal quale è riconosciuto e nel quale si riconosce; lascia le navi e il mare per trasferirsi in un mondo pieno di bellezza, ma che non lo riconosce. Il contesto di approdo dapprima lo respingerà e poi lo celebrerà, pur non rinunciando a trattarlo con distanza, mentre quello di partenza non lo riconoscerà più. “Aveva fatto un viaggio così lungo nel paese dell’intelligenza che non riusciva più a ritrovare la strada del ritorno” – scrive Jack London nel libro da cui è stato tratto il film – […] i suoi compagni di una volta non potevano più comprenderlo e neppure la sua famiglia, né la borghesia […]”. Non lo si dice spesso, ma chi si sposta verticalmente nella scala sociale, non di rado si ritrova in una no man’s land, a fare i conti con la solitudine della non appartenenza.
Parallelamente al percorso sociale, se ne compie uno psicologico: Martin si allontana progressivamente dai punti fermi del corpo, per perdersi nell’empireo della sua mente. Il pensiero è al tempo stesso la sua meraviglia e la sua condanna. “Qualsiasi cosa la sua immaginazione osasse evocare si trasformava, in un modo sublime e magico, in un oggetto concreto”. Sulle ali di una potenza mentale straordinaria, Martin si eleva e diventa scrittore, ma al tempo stesso trasferisce tutto se stesso nel regno del pensiero.
Il desiderio, a quel punto, può essere pensato ma non più sentito. Quando Ruth, che fu il suo grande amore, torna a trovarlo e lui le dice: “Se sapessi ancora desiderare, desidererei te”, la parabola si è compiuta. Svuotata di emozioni, di corpo e desiderio, la vita di Martin perde di significato, trasformandosi in un calembour, in una giostra di parole pronunciate da un corpo stanco, emaciato, trascurato, imbruttito, abbandonato su un divano e privo di forze. E mentre negli occhi continua a scorrere il ricordo della danza con la sorella – che il regista ci ripropone più e più volte – soffriamo per quell’esilio di impenetrabile solitudine e infelicità cui l’accendersi del pensiero e lo spegnersi del corpo possono costringere l’essere umano.